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Un monaco dell’arte

Dedizione esclusiva, quasi religiosa, alla pittura.

Aldo, da sempre, ha avuto per unica sposa quella particolare condizione di spirito che ritrovava solo tra le mura spoglie e ovattate del suo studio luminoso, lassù di fronte alla facciata complice della chiesa di San Pier Maggiore la cui vista lo rassicurava ogni giorno di un persistente legame, tra la vera bellezza e l’essenzialità. L’essenzialità, quella cui consapevolmente ha sempre teso, in un rigoroso lavoro di sottrazione, come uno scrittore severo soprattutto nei confronti di se stesso, che cerchi nella scarnificazione della trama il nocciolo della storia.

Aldo era una sorta di monaco dell’arte e questo termine lo ha rappresentato in modo pertinente, specie negli ultimi trent’anni della sua vita, quando la sua opera si è mossa esclusivamente nella sublimazione e rarefazione di moduli espressivi coloristici, dove la luce, sempre più, e in ultimo in maniera totalizzante, si è impadronita del campo. Come se il prisma, che l’aveva scomposta nei colori, l’avesse richiamata a sé e ne avesse affidato al solo bianco la responsabilità di rappresentarli tutti e di renderne solo un’idea di luce, appunto, giostrando sull’alternanza del trasparente ‘bianco di zinco’ e del più categorico ‘bianco di titanio’. Era una tramatura paziente quella che il monaco coltivava nel silenzio assoluto del suo atelier.

Perché dovremmo accostare la figura di Aldo, lui così ateo, a quella di un monaco? Primo, per la dedizione esclusiva, quasi religiosa, all’arte: Aldo viveva in funzione di questo rapporto giornaliero, totalizzante con l’arte. Secondo, per la responsabilità: come quella di un monaco che apparentemente pare fuggire dalle responsabilità del mondo per rifugiarsi nelle sue preghiere, Aldo sentiva al pari la responsabilità di santificare la sua giornata con la qualità del risultato delle sue meditazioni. Terzo, per il distacco, per la rinuncia a tutto ciò che solitamente la funzione comporta. Rinuncia all’armamentario promozionale, cui gli operatori in questo campo amano dedicarsi. Per lui valeva solo il suo intimo colloquio con la tela. Del resto, dal lontano 1989 non ha tenuto più una mostra e non avrebbe fatto neppure quella se non se ne fossero occupati gli altri. Quarto, per la ritualità: non solo la sua giornata era scandita da tempi quasi cistercensi, tutti finalizzati a quel colloquio intimo che si diceva, ma anche la preparazione di quel supporto dove lui andava a ‘scrivere’ i suoi lirici cromatismi richiedeva una maniacale e artigianale preparazione, alla maniera dei riti antichi d’imprimitura delle tele. Quinto, la sensazione di trascendenza dell’opera stessa, come lo è l’obbiettivo della preghiera: quando Aldo cessava di interloquire, nell’opera tutto risultava scritto e, a posteriori, sembra leggervi una sorta d’invocazione esaudita.

Aldo Frosini

L’arte di Frosini, pur non riconducibile all’elementarizzazione delle linee e dei colori campiturali di Mondrian, in quanto in Aldo questi tendono a sconfinare dalla costrizione delle linee cui il pittore olandese li aveva relegati, tende comunque, anch’essa come quella, alla restaurazione di un’armonia e di una quiete perduta.

Monet, Cézanne, Matisse, in varia misura di questi tre pilastri la sua ricerca sentiva di raccoglierne lo spirito, tentando di renderne una sintesi astratta con l’uso di una debordante sensibilità. ‘Sensibilità’, termine che richiama il nome anticipatore, in massimo grado, del modernismo nell’arte pittorica, quello di Malevich e del suo teorizzato ‘suprematismo’, fondato sulla supremazia della sensibilità pura nell’arte.
Le opere astratte di Frosini si affrancano totalmente da ogni referente figurale e comportano per l’osservatore l’obbligo di nulla chiedere, ma solo quello di sentire, e ci dicono che non è compito della poetica di questo artista di rappresentare, bensì di evocare, e invocare, ancorché sommessamente, una partecipazione emotiva, una con-passione nella condivisione della visione nel rapporto che si stabilisce tra l’immagine veduta e lo sguardo che vede.

TESTO E FOTO

Fabrizio Zollo

Un pittore astratto tendente all’assoluto

I riferimenti della sua formazione: Piero della Francesca, Monet, Cézanne, Matisse, Malevich

di Leonardo Begliomini

Il bianco, un non colore che diventa vera pittura.
Così mi sembrò di sintetizzare qualche anno fa una visita allo studio di Aldo Frosini, pittore schivo ma cosciente del valore della sua pittura tanto da – così ricordava Fabrizio Zollo – essere intimamente convinto che ‘l’arte è solo per pochi’. Aldo Frosini nasce a Pistoia il 14 febbraio del 1924.
In giovane età aiuta saltuariamente lo zio decoratore Enea Flori, che pur non incoraggiandolo a intraprendere la strada della pittura, influenzerà comunque la sua formazione.
A dodici anni frequenta i corsi serali della scuola d’Arte di Pistoia.

Nel 1941 frequenta la scuola d’Arte di Porta Romana a Firenze, dove ha come compagno lo scultore Jorio Vivarelli. Dopo una pausa dovuta al richiamo alle armi, riprende gli studi e, nel ’45-’46, consegue il diploma di maestro d’arte.

Nel periodo che va dal ’41 al ’45, dipinge nature morte fatte con essenzialità e un colore scuro di fondo dal quale emergono oggetti solidi e ben costruiti, dove appaiono evidenti le conoscenze acquisite nella frequentazione della scuola di Porta Romana e dei musei e chiese fiorentine, dove in particolare studia la pittura di Giotto e Masaccio. Successivamente, il colore si schiarisce e assume un tonalismo luminoso, influenzato dalla pittura di Matisse e dei Fauves, le cui opere aveva approfondito nelle Biennali d’arte veneziane.

Nel 1951 apre un atelier a Pistoia, in via Castel Cellesi, frequenta i pittori locali Cappellini, Bugiani, Mariotti, Agostini e si lega in una fruttuosa amicizia con il pittore Fernando Melani. Nello stesso anno è assistente alla cattedra di disegno al Liceo scientifico pistoiese. Nel 1954 inizia l’attività di restauratore con Leonetto Tintori e Giuseppe Rosi. Successivamente, lavorerà con il pittore Mirando Iacomelli, con cui esporrà insieme nel 1957. La professione del restauratore intensificherà l’attenzione per le tecniche artigianali legate alla pittura, che avrà in massima considerazione per tutta la vita.

Negli anni Sessanta terrà alcune mostre personali, tra cui quelle alla Galleria Vannucci di Pistoia, a La Strozzina di Firenze, a Padova.

Nel 1970 si trasferisce nello studio di Via San Pietro 5 e ai primi anni Settanta, con la tematica delle ‘reti’, risalgono le prime opere astratte. Nel 1977 fa un viaggio in Russia, dove in particolare resta colpito dalla straordianria modernità e assolutezza dele opere ‘suprematiste’ di Malevich, al quale però contrappone un’astrazione che interpreti in maniera soggettiva la realtà. Il percorso astratto di Frosini continuerà con una produzione notevole quando dal 1982 potrà dedicarsi solo ed esclusivamente alla pittura. Dopo le tematiche delle ‘impalcature’ e ‘romanico’, affronterà il tema delle ‘città’, che lo porterà ad un linguaggio sempre più tendente all’informale. Nel 1989 il Comune e la Provincia di Pistoia gli dedicano una grande mostra antologica. Da quell’anno non esporrà più in mostre personali, continuando però quotidianamente a dipingere e, attraverso la tematica ‘tibetana’, approdando ai ‘bianchi’, opere apparentemente minimaliste che per la loro forza evocativa avvicinano il nome di Aldo a quelli di Fontana, Burri, Manzoni, Castellani.

Per concludere, possiamo definire Frosini come un pittore dell’assoluto, se prendiamo alla lettera la definizione di pittura come ‘l’arte di stendere i colori su di una superficie’ e che lo pongono tra i grandi artisti contemporanei di Pistoia, quali Marino Marini e Fernando Melani.
L’artista è deceduto il 24 gennaio del 2013. Ha donato molte delle opere rappresentative del suo intero percorso artistico al Comune di Pistoia e alla Fondazione della Cassa di Risparmio di Pistoia e Pescia.

 

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