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Le ali di Mercurio

Nello studio in cui l’artista ha lavorato per oltre vent’anni, in via degli Orafi.

Capita di desiderare di essere nell’attimo dello scatto di una fotografia: poter varcare la soglia che ci separa da chi è rimasto imprigionato nel tempo di quel fotogramma. Quel frammento di tempo, per noi che guardiamo, diventa assoluto, unico e universale, rappresentativo e potentemente eloquente.
L’ho desiderato molte volte guardando le fotografie degli archivi degli artisti. Questo perché la fotografia ha il potere di renderci contemporanei a persone che, invece, sono da noi irrimediabilmente distanti. Ci donano un frammento di tempo che non ci appartiene biograficamente ma che è capace di divenire reale nella nostra immaginazione: il fotogramma diviene parte di un’esperienza comune.

Così per un attimo potremmo immaginare di essere nella stessa stanza con l’artista Remo Gordigiani (Empoli 1926-Pistoia 1991), in quell’attimo di luce bellissima e magica che inonda l’ambiente dalla finestra dello studio, all’epoca in via degli Orafi. Saranno stati i primi anni Settanta in questa fotografia.
Nel 1969 Gordigiani aveva trovato quello che sarebbe divenuto il ‘suo studio’: lo spazio che per 22 anni lo accolse nel lavoro quotidiano di riflessione artistica che si alternava all’insegnamento alla Scuola d’arte Policarpo Petrocchi. Uno spazio amato e una condizione topografica importante da doversi segnalare in calce ad alcune opere: n.s. (‘nuovo studio’).
Le finestre sono aperte su un corso cittadino che immaginiamo animato di persone: Gordigiani con la spolverina bianca, affacciato, sembra ascoltare i sussurri di Mercurio disposto sulla facciata del Cinema Eden, nella Galleria Vittorio Emanuele. Sarebbe bastato solo un batter d’ali e Mercurio col caduceo sarebbe potuto letteralmente balzare nella stanza e penetrare nell’intimo del mistero che sempre si racchiude nello studio di un artista. Si sarebbe aggirato tra pile di libri accatastati sotto la finestra e negli scaffali, tra barattoli di colori e d’inchiostri, tra matite meticolosamente allineate sul tavolo da lavoro, tra ceste di ritagli di riviste, ordinati per gradazione cromatica, tra tele e dipinti, tra dischi e quaderni pieni d’immagini, di appunti di lavoro. Volteggiando con le ali ai piedi, avrebbe danzato sulle arie di Debussy, di Dvorak e altri: ovunque è una musica che muove l’animo all’ascolto profondo della poesia delle cose, alla riflessione, al ripiegamento. Sono certa che Gordigiani avesse scelto questo luogo proprio per quella magica luce che, rimbalzando dalla tettoia della Galleria, penetrava gentile nella stanza, accarezzando morbidamente la superficie delle sue opere.

Una montagna di opere: il lavoro di Gordigiani si dipana a partire dal 1949, attraversando anni vorticosi di sperimentazione tecnica e tematica. Immerso in questa luce, lo immagino carezzare la superficie di certi suoi dipinti: quella dei ‘sottoboschi’, dei ‘battelli’ o dei ‘motivi romanici’, intrisi di materia grassa, di materiali inerti mischiati col colore che evoca la potenza tellurica di una creazione. Lo immagino vagliare la superficie dei suoi collage, nati dalla giustapposizione paziente di ogni singolo frammento a creare suggestioni di luce abbagliante, sgranamenti lenticolari, sfocature e astrazioni cromatiche capaci di rapire l’occhio in universi misteriosi. È difficile descrivere a parole questo lavoro dei collage di Gordigiani: un lavoro protrattosi per quasi 20 anni, in segreto ai più, proprio nello studio di via degli Orafi. Questo luogo è, in effetti, lo scenario di un dramma e di una catarsi che si compie proprio nei collage: 161 lavori a cui Gordigiani si dedica tra il 1964 e il 1981. A dire la verità la serie nasce in un altro studio, poco lontano da questo, in Piazzetta Romana, all’epoca condiviso con gli artisti Barni, Ruffi e Buscioni. Il fattore scatenante di un brusco cambiamento di rotta che nel 2008, all’epoca della mostra monografica organizzata da chi scrive a Palazzo Fabroni per il Centro di Documentazione sull’Arte moderna e contemporanea pistoiese, lasciò molti amanti del Gordigiani ‘pittore’ spiazzati, fu una malattia, una dermatite da contatto che allontanò l’artista dalla possibilità di praticare la pittura a olio. “Il trauma profondo che ne è seguito ha provocato in me una reazione tale da spingermi a ricercare, ancora una volta, nuove possibilità di lavoro che mi permettessero di continuare a sognare con la pittura” (Remo Gordigiani, Presentazione, mostra Galleria Valiani, Pistoia 1979). Il valore assoluto di questo lavoro ‘nascosto’ di Gordigiani è per me ineccepibile. La potenza destabilizzante di queste opere per l’ambiente culturale cittadino dovette essere ben presente all’artista che in segreto coltivò l’idea di una mostra a essi dedicata, nel giusto contesto di una contemporaneità che puntava lontano, fuori dallo stretto giro delle mura pistoiesi. È un lavoro dirompente, non solo rispetto all’opera di Gordigiani, ma rispetto anche a quanto si era fatto o si stava facendo nell’ambito della stessa tecnica del collage nel corso del Novecento. Condividemmo con la storica dell’arte Lara Vinca Masini il fardello di un doveroso omaggio a questo lavoro, assolto postumo con il rammarico di aver fatto tardi ma con la speranza di rendere visibile l’immensa qualità artistica di queste opere.

Se solo Mercurio avesse potuto convincerlo a svelare il suo segreto agli Dei, se solo Gordigiani avesse vinto i timori, le ritrosie. Per questo oggi se ne scrive, si torna a pubblicarne l’opera nascosta: per vincere la nostalgia dei tempi, per mantenere una promessa, per condividere un segreto celato dietro le finestre di uno studio su via degli Orafi, ma anche per ricordare l’esempio altissimo di un uomo più tenace della malattia. Ma tutto attorno allo studio c’era e c’è Pistoia. Oggi, in questo 2018, la città è segnata da altre presenze, da altri percorsi e altri tracciati. Un tempo, nel tempo che per me era il mito dell’infanzia, la città, più e più volte immaginata attraverso i fotogrammi isolati delle fotografie negli archivi, era anche una topografia di luoghi legati all’arte e agli artisti.

Numerose gallerie d’arte contrappuntavano lo spazio del centro cittadino tra i bar del Globo, del Piemontese e del Valiani, ritrovi quotidiani di artisti di varia levatura e corrente culturale. Altri ritrovi culturali erano la Fonderia Michelucci in via dell’Anguillara, la Scuola d’arte e gli studi d’artista: quello di Gordigiani in via degli Orafi, quello di Valerio Gelli nella casa che fu di Corilla Olimpica e poi di Marino Marini, quello di Aldo Frosini in faccia al leone romanico della chiesa di San Pietro, quello di Fernando Melani sul Corso Gramsci, quello di Gianfranco Chiavacci in via del Villone. E altri luoghi di cui sicuramente si è perso il ricordo, ma che popolavano il tessuto urbano.
Raggiungibili con un mucchio di passi – forse non più di qualche centinaio – inanellati uno accanto all’altro quasi come i grani di un rosario o i pippi della corona di San Bartolomeo, gli studi di alcuni artisti erano per me il viatico imprescindibile di ogni ricerca. Oggi questi luoghi rimangono nei frammenti fotografici, nella geografia sentimentale di una città che cambia in fretta e che, a volte, sembra privilegiare la memoria antica, ma non quella di un passato appena prossimo: per noi – ed è un ‘noi’ anagrafico, temo – «Pistoia è […] una vera PASTOIA sentimentale dalla quale non potremo mai più liberarci. […] Di tutti i miti quello di PT per noi resta ancora il meno inficiato dai tempi. Ma sempre di mito si tratta» (Lettera di Mario Ciattini a Remo Gordigiani, datata 1981, Pistoia, Archivio Gordigiani). Così scriveva il letterato Mario Ciattini a Gordigiani nel 1981 e non posso, adesso, che dargli ragione. Pistoia è un mito: i suoi artisti ne hanno fatto e ne fanno parte. Remo Gordigiani è fra questi.

 

Testo
Annamaria Iacuzzi

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