Dal ‘200 a oggi, storia delle scritture nate a Pistoia, tra codici antichi, manoscritti, volumi a stampa, immagini.
Una storia di Pistoia città delle scritture potrebbe cominciare dalla fine del Duecento. A quel periodo risale il canzoniere detto Palatino, la raccolta poetica consegnata al manoscritto conservato nella Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze: probabilmente il più antico tra i grandi canzonieri riguardanti le origini della nostra poesia, certamente il più bello e l’unico ad esibire uno straordinario ciclo di miniature. Non è certo il luogo in cui questo codice, in pergamena, sia stato confezionato; è però certo che è stato scritto per mano di un pistoiese.
La riproduzione del Palatino (l’originale, preziosissimo, non viene dato in prestito) apre la mostra “La città che scrive. Percorsi ed esperienze dall’età di Cino a oggi”, una esposizione che Pistoia Capitale italiana della Cultura ha deciso di dedicare alle sue scritture (letterarie, ma non solo) e che si snoda lungo le sale della Biblioteca Forteguerriana. Lungo un arco cronologico di otto secoli, attraverso codici, manoscritti autografi, volumi a stampa, fotografie, riviste, dipinti, è possibile fare un viaggio affascinante e scoprire (per chi non lo sapesse o per chi non avesse mai soffermato l’attenzione su questo aspetto) la ricchezza e la rilevanza del rapporto che la città e il suo territorio hanno mantenuto, nel tempo, con la parola scritta. Da Mazzeo Bellebuoni, il notaio che traduce in volgare lo Statuto che l’Opera di San Jacopo gli aveva chiesto di comporre, a Lanfranco di ser Jacopo Del Bene che, nel 1278, copia il volgarizzamento dei trattati di Albertano da Brescia (un volgarizzamento fatto da Soffredi del Grazia qualche anno prima); dal Sozomeno, il raffinato umanista che lascia alla città i 110 volumi che ha raccolto, dando origine alla prima biblioteca pubblica, fino a Tommaso Baldinotti, poeta e copista che allestisce anche un esemplare della Raccolta aragonese, volume voluto da Lorenzo de’ Medici come deposito della tradizione toscana in dono regale ad Alfonso d’Aragona: sono questi alcuni vertici documentati nella mostra, che – per la sua parte antica – non può non occuparsi anche di Cino. Cino (che Dante definiva «poeta dell’amore») non ha lasciato autografi, ad eccezione di una firma in calce a un documento, conservato nell’Archivio di Stato di Firenze ed esposto nella mostra, insieme ad un esemplare del De vulgari eloquentia aperto sulla pagina in cui Dante parlava del suo ‘collega’ e amico pistoiese.
La città ha avuto un papa poeta come Clemente IX, autore di melodrammi; ha avuto – facendo un salto in avanti – un autore come Niccolò Forteguerri, che scriveva il poema eroicomico intitolato il Ricciardetto (uscito postumo nel 1738) e che colpiva l’attenzione, quasi un secolo dopo, di Giacomo Leopardi e di Ugo Foscolo; ha avuto Corilla Olimpica, incoronata in Campidoglio con l’alloro poetico nel 1776. E poi, immaginando di percorrere a grandi falcate le teche della mostra e di viaggiare con rapidità saltando da un secolo all’altro, a Pistoia e nel suo territorio sono nati Giuseppe Giusti (una delle sue poesie autografe, La guigliottina a vapore, è esposta), Policarpo Petrocchi (autore di quel vocabolario sul quale hanno studiato generazioni di italiani) e, nel Novecento, Gianna Manzini, che ha raccontato la città – con le sue strade strette e le sue pietre – in Ritratto in piedi (1971).
È un intreccio di esperienze di scrittura, quello che la mostra propone. Dando spazio (e come non farlo?) a quel capolavoro internazionale e senza tempo che è il Pinocchio di Carlo Collodi (pubblicato per la prima volta sul «Giornale per i bambini», fondato e diretto da Ferdinando Martini, nato a Firenze ma fortemente legato a Monsummano), soffermandosi su alcune curiosità di straordinario valore (il premio Nobel Giosuè Carducci, che a Pistoia era stato come insegnante nel 1860 frequentando il salotto di Louisa Grace Bartolini, stampava in città la plaquette con l’inno A Satana e il volume Levia gravia), ricordando Renato Fucini e Gherardo Nerucci. La mostra valorizza materiali presenti in Forteguerriana, nelle biblioteche cittadine o nelle collezioni private della città: ma permette anche di vedere carte provenienti da altre istituzioni e, per il Novecento, le carte preparatorie autografe delle poesie che Piero Bigongiari dedica a Piazza d’Armi, a Via del Vento e a Via della Madonna nella raccolta che decide di intitolare Le mura di Pistoia (1958) e i cui manoscritti sono conservati a Pavia. Arturo Stanghellini, prima di pubblicare il suo libro sulla Grande Guerra, l’Introduzione alla vita mediocre, racconta la sua esperienza di trincea nel taccuino e con una serie di disegni a matita; le riviste e i periodici del primo Novecento restano ancorati alla città, ma possono anche aprirsi all’esterno e assumere una rilevanza extra-cittadina, come è accaduto a “La Tempra” (fondata nel 1914) e al “Ferruccio”, settimanale della Federazione fascista, la cui terza pagina, negli anni Trenta, occupa un ruolo importante nella nascita dell’Ermetismo. Ci sono, nella storia della città che scrive, Marcello Venturi, Sergio Civinini, Leda Rafanelli; c’è Roberto Carifi, che, con la sua esperienza filosofico-poetica, diventa emblema della città che continua a scrivere e rappresenta la voce lirica della Pistoia contemporanea. Ma ci sono anche, nella parte conclusiva del percorso, due illustri ‘non pistoiesi’ che hanno scelto di vivere (in maniera stabile o per lunghi periodi) sulle nostre montagne: Francesco Guccini e Tiziano Terzani. In tutti e due i casi, vengono messi in mostra due suggestivi autografi. Quello di “Auschwitz”, la poesia-canzone di Guccini, scritta nel 1964 su un foglietto a quadretti che conserva le correzioni e i ripensamenti del cantautore: un testo che ha fatto la storia della musica italiana del Novecento. E la lettera datata “Firenze 12 marzo 2004” che Terzani inviava al figlio Folco e che è diventata poi la premessa e l’origine della loro lunga conversazione, registrata sulle nostre montagne, a Orsigna, e uscita per Longanesi nel 2006 con il titolo La fine è il mio inizio.
TESTO
Giovanni Capecchi e Giovanna Frosini
FOTO
Nicolò Begliomini
Archivio “La città che scrive”