Debuttò nella squadra arancione, conquistò lo scudetto in viola e partecipò ai Mondiali.
Classe di ferro 1928, Ardico Magnini, ex mezzala prima e terzino poi di Case Nuove di Masiano, Pistoiese, Fiorentina, Genoa e Prato, è ancora, con le sue 20 presenze in azzurro, il calciatore pistoiese, con Benito Lorenzi, più importante. O uno dei più prestigiosi. Nato in Piazza della Resistenza (o Piazza d’Armi, come la chiama lui) a Pistoia, da 62 anni cittadino di Firenze, il prossimo 2 giugno festeggerà le nozze di diamante con l’amata Anna, anch’ella pistoiese. Entrambi tifosi della Viola (la dolce metà pare addirittura più appassionata di lui, ex colonna del primo scudetto gigliato, stagione 1955/56, quello conquistato con Fulvio Bernardini in panchina ed Enrico Befani alla presidenza), raccontano com’è l’ambiente fiorentino e quanto sia cambiato il calcio da allora, dal Gre-no-li (il trio svedese del Milan, il professore Gren, il pompiere Nordhal e il barone Liedholm) alla Juventus di Boniperti e all’Inter di “veleno” Lorenzi.
«Il pubblico di Firenze è caloroso e competente – ci dice Magnini, e prosegue.- È vero è anche polemico, ma il fiorentino, se lo sai prendere, diviene dolcissimo. Ci siamo sempre trovati bene in questa città, ancora a misura d’uomo, anche se le cose sono cambiate per quanto riguarda il pallone. Un tempo i giocatori potevano girare liberamente per la città, scambiavano quattro chiacchiere con i tifosi: c’era umanità. Oggi c’è troppo distacco tra l’atleta, il campione e la realtà che lo circonda – continua l’ex azzurro.- Per parlare con un calciatore occorre avere il permesso dell’addetto stampa, non c’è più dialogo e la gente s’arrabbia. Il fiorentino era semplice, ma non stupido: voleva vedere l’impegno, innanzitutto. Se uscivi dal campo con la maglia sudata, spesso strappata, sporco di fango o erba capiva quanto fossi attaccato a quel colore. Oggigiorno, per carità, ci sono calciatori tecnici e valenti, ma che non si sacrificano. E il tifoso lo capisce al volo».
Iniziò da mezzala, ma fu Ferrero, ai tempi della Fiorentina, a fare le sue fortune.
«Mettendomi terzino colse il mio miglior pregio, l’elasticità, consentendomi di approdare in azzurro. All’epoca dicevano che fossi un giocatore strappato all’atletica leggera. Sarei stato un eccellente saltatore in alto, mentre avevo sperimentato quello in lungo».
Il calcio degli esordi era tutto un altro pallone.
«Lavoravo dal Mandorli e andavo ad allenarmi, a Monteoliveto, con la tuta da operaio. Oppure ancor prima, in Piazza d’Armi, si prendevano le porte dalla Zelinda e si giocava sino a sera inoltrata».
Due figli, uno deceduto, 3 nipotini, una vita (sino al 2010) dopo il calcio trascorsa a gestire un bar in Piazza d’Azeglio a Firenze. Pistoia ogni tanto si ricorda di lui invitandolo alle celebrazioni della Pistoiese. Ma nulla di più.
«Nemo propheta in patria est”, sottolinea».
Ottantaquattro anni splendidamente portati, fa comprendere il perché di tante morti premature nel mondo dello sport.
«Spesso son quelli che si sottoponevano a punture. A noi, invece, talvolta non arrivava neppure il bottiglione del tè».
Racconta con un aneddoto quanto i compensi odierni siano smisurati rispetto a quel football d’antàn.
«Prima di una gara con la Juventus, chiedemmo al presidente Befani 5mila lire in più. Sa come ci rispose? ‘Mi volete rovinare’ e non ce le concesse. Quando ascolto certi ingaggi, sbalordisco. Questi non sudano e arricchiscono».
TESTO
Gianluca Barni