I lavori tradizionali e i paesaggi della campagna pistoiese nelle tele dell’artista nato nel 1905.
Si conosce un territorio anche attraverso le rappresentazioni artistiche che ne sono state fatte durante i vari periodi storici. I paesaggi delle campagne pistoiesi, delle colline verdi con i loro piccoli borghi, dei fiumi che scendono alla pianura, delle case coloniche, dei covoni di paglia, così come la rappresentazione dei lavori campestri che un tempo scandivano i mesi e la vita quotidiana, sono stati negli anni fonte di ispirazione per numerosi artisti che attraverso i loro dipinti hanno raccontato la vita e il carattere di questi luoghi.
Questo è il caso di Alfiero Cappellini, artista pistoiese nato nel 1905, che per tutta la vita si è cimentato nell’arte del raccontare per immagini. Nel vedere oggi i suoi dipinti si riconoscono i luoghi della campagna pistoiese. Si riconoscono, appunto, cioè si conoscono di nuovo, come in un continuo processo di analisi introspettiva che riguarda chi questi luoghi li ha vissuti e conserva memorie personali legate alle proprie origini e al proprio passato. Per chi oggi veda per la prima volta le opere di Cappellini, forse una chiave di lettura preliminare potrebbe essere questa: cercare di comprendere un territorio attraverso quei paesaggi pervasi dalla luce, quei colori accesi accostati con la cura di chi compie un lavoro paziente e necessario, come quello dei campi, quelle figure umane colte nella loro attività di un tempo. Il vangatore, il funaio, i cavatori di pietra, il contadino che arrota la falce: sono tutte rappresentazioni del carattere del territorio pistoiese, così come lo sono i paesaggi o gli elementi colti dall’ambiente naturale come gli alberi, i fiori o le nature morte.
Anche se oggi non esistono più queste figure di lavoratori e i paesaggi sono stati modificati dalle costruzioni e dall’opera dell’uomo, se ne percepisce ancora la presenza, così come si percepisce tutto il passato che attraverso i secoli ha plasmato questi luoghi. Ecco che allora di fronte ad un dipinto di Cappellini ci si trova a riflettere su tutto questo portato di memorie e di culture che sono l’essenza del territorio pistoiese.
Una pittura che fu aggiornata rispetto alle correnti artistiche del primo Novecento e che già tendeva ad intuire quella grande rivoluzione astratta dell’arte informale, che decretò la vera cesura tra rappresentazione figurata e azione rivolta al processo creativo.
Figlio di un imbianchino, che inizialmente osteggiò la sua vocazione artistica, Cappellini non ebbe una vita facile, ma non abbandonò mai l’attività pittorica, che lui stesso definiva una “necessità”. Rispetto agli altri pittori pistoiesi, amici e sodali riuniti sotto il nome di “Cenacolo di Pistoia”, Cappellini si distinse per un carattere più originale, più aspro e meno lirico, forse più vicino alle esperienze innovative che in quegli anni stavano maturando al di fuori della pittura postimpressionistica e della lezione di Soffici alla quale gran parte dell’arte toscana si era conformata.
Rimangono alcuni scritti autobiografici che furono pubblicati sulle riviste culturali del tempo fino al 1969, anno in cui Alfiero Cappellini morì a Pistoia, la sua città; scritti che oggi sono stati ampiamente ripubblicati su varie edizioni critiche dell’opera dell’artista. In uno di questi, datato 1939, si legge: “So che il resto dei miei anni li dedicherò ancora alla pittura, ed in ultima analisi, al raggiungimento di un ideale di felicità, perché ancora penso che l’arte, cioè il credere in qualcosa che va oltre i limiti della nostra conoscenza, inserendosi nell’ordine spirituale delle cose, debba essere felicità”.
Ci piace credere che anche questo pensiero sia parte del carattere del territorio pistoiese e di tutti i suoi abitanti.
TESTO
Lorenzo Cipriani
FOTO
Archivio Galleria Vannucci
Archivio Fondazione Cassa di Risparmio di Pistoia e Pescia