Celebri i suoi ritratti dei grandi artisti del ‘900, da De Chirico a Warhol, da Burri a Vedova.
Un fotografo è molto più umile, e forse anche simpatico, di un critico d’arte. Quest’ultimo affronta la propria osservazione alla luce di un’ideologia artistica e nei suoi confronti la fotografia, che nasce più libera, vince sempre la sfida di saper raccontare meglio l’arte. Soprattutto quella dei nostri giorni.
Aurelio Amendola, ormai da quasi cinquant’anni dietro un obiettivo, è uno dei grandi e riconosciuti maestri in questo campo, tanto da essere stata coniata per le sue immagini l’etichetta “in stile amendoliano”. Sono, infatti, riconoscibili a prima vista oltre che piacevolissime da guardare.
A chi durante un’intervista si è mostrato curioso di sapere come nascono le sue fotografie, ha sempre risposto con la schiettezza del buon pistoiese: “Nei miei ritratti emerge quello che io vedo nel soggetto, come lo percepisco.” E di soggetti, ma sarebbe meglio dire di amici artisti, nel tempo ne sono passati molti e dei più grandi: da De Chirico a Warhol, da Burri a Vedova, i cinque della Transavanguardia e Julian Schnabel che di loro era compagno ma sul versante newyorchese, solo per fare qualche esempio.
Non è un vezzo il riferimento all’amicizia perché per scattare le sue immagini Amendola ha bisogno di instaurare un dialogo, un’empatia diretta con chi si trova di fronte alla sua macchina. Lo scatto di una sua foto non è mai un atto di violenza come può essere quello del fotoreporter che si dice rubi l’anima per strada, ma piuttosto uno scambio, un dare e prendere qualcosa, come avviene con le parole nelle conversazioni. Un rapporto che, come è facile immaginare, dato anche il suo carattere estroverso, nel tempo si fa dimestichezza, affezione, sfiora il cameratismo. E non poche volte mentre mostra le sue immagini cita soprannomi e si perde in gustosi aneddoti.
A chi s’immagina il lavoro del fotografo come sempre in agguato per intrappolare il momento decisivo, una simile fratellanza con il soggetto potrà sembrare strana. Ma è solo dal parlare, dal frequentarsi che possono nascere dei ritratti che evocano una genuina spontaneità. Ed essendo Pistoia non solo città d’arte ma anche di artisti, nel suo archivio è possibile rintracciare molte immagini d’importanti protagonisti del nostro Novecento.
Uno dei suoi primi ritratti è quello a Jorio Vivarelli, anche se parlando di scultori i più noti sono quelli legati a Marino Marini con cui aveva stretto una profonda amicizia. Impossibile non essere per lo meno inciampati con lo sguardo su quella spiaggia di Forte dei Marmi dove l’artista a piedi nudi è in compagnia di un cavallo, l’animale da lui più amato e rappresentato per essere il simbolo della natura. In una ieratica posa da sognatore è invece Agenore Fabbri colto davanti alla facciata di un signorile palazzo di Albissola. Ma è con i rappresentanti della sua generazione che osa di più, ritraendo in bianco nero un Gianni Ruffi pensieroso nello studio dove le opere sono coperte da teli bianchi con ai piedi i suoi giganteschi chiodi o un Roberto Barni meditabondo come se fosse una versione contemporanea, perché in piedi, del “Pensatore” di Rodin.
Immagini che più di tanti fiumi d’inchiostro sanno penetrare nell’intimo risvolto del lavoro dei due.
Tra gli artisti legati al nostro territorio oltre a fotografare i molti che con le loro mostre sono passati in quella che è stata la stagione più rosea di Palazzo Fabroni, Amendola non dimentica di fermare anche il corpulento Cesar, uno dei grandi protagonisti del Nouveau Realisme francese durante gli anni sessanta. Al secolo Cesare Baldaccini, per Amendola Cesarino, con origini familiari sulle colline di Pescia, lo ritrae accanto a uno dei suoi famosi e giganteschi pollici in una scena in cui è palesemente protagonista la luce che, come per tutti i grandi fotografi, è la condizione principale con cui costruire l’immagine. Sicuramente questa è l’unica costrizione che Aurelio Amendola sopporta.
TESTO
Marco Bazzini