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Storia di un calderaio

Lavora da settant’anni al tornio che si è fatto costruire su misura.

Classe 1927, professione calderaio: ogni mattina Giovanni Donnini, per gli amici Nino, apre la bottega appena fuori dalla porta Fiorentina e lavora al tornio tra riccioli di rame e bagliori metallici. Mentre le mani si muovono con gesti rapidi e sapienti, ci racconta la sua storia e nei guizzi dei vivaci occhi azzurri si legge la passione che lo anima da una vita.

Giovanni è nato in Francia, figlio di emigranti; nel 1934 torna a Pescia e a quattordinci anni comincia a lavorare in un laboratorio di casalinghi: “Il mio mestiere era chiamato calderaio, perché si facevano brocche e caldaie. Non ho studiato tanto, ma la cultura non è solo saper leggere e scrivere, è anche il lavoro, saper tenere in mano una mestola o una vanga. Mi dicono che sono un artista; non è vero, sono un artigiano. Questo lavoro mi ha dato da vivere, mi sento gratificato economicamente e moralmente. Non sono dei più bravi – continua Nino – da giovane ne ho conosciuti di bravi davvero. Devo tanto ai compagni più vecchi di me … chi mi ha insegnato a tenere il martello in mano, chi a tenere i ferri. Ho imparato da loro e poi c’ho messo qualcosa in più: il progresso secondo me è questo”.

Una profonda definizione di progresso; la mano di Nino è lì tesa per passare il testimone, ma esiste il concreto rischio che il patrimonio di questo sapere possa cadere nell’oblio: “Nessuno fa più il lavoro manuale, era la ricchezza del nostro paese, noi italiani avevamo qualcosa in più. Oggi non lavoro più per il lato economico, ma penso di essere ancora utile alla società, mi sento importante. Non mi peserebbe tenere dei ragazzi qui a imparare, il lavoro non mancherebbe”.

Di soddisfazioni Giovanni ne ha avute tante; ha ricevuto visite dall’Università di Londra, è stato ripreso dalla tv della California e più volte dalla RAI: “Non sono un’eccezione, come l’ho fatto io possono farlo tutti; ormai da una ventina d’anni sembra una cosa superlativa, invece a Pescia eravamo tanti, c ‘erano le fonderie, c’era lavoro e i ragazzi non andavano all’estero”.

Nino lavora rame, ottone e peltro usando ancora il metodo tradizionale della “lastra” e quando gli si chiede se nel 2015 abbia ancora senso continuare questa professione, risponde: “Certo, il lavoro oggi non è per chi compra un tegamino per bellezza; la mia clientela è quella che ha necessità di qualcosa di diverso, sennò ci sono le fabbriche. Si lavora per la qualità, non per la quantità. Ci sono cuochi professionisti che vogliono le casseruole in una certa maniera, ma anche pasticceri e pizzaioli. C’è chi viene per le riparazioni e chi mi chiede degli oggetti per il cimitero, da fare a misura per tombe di cento anni fa”. A proposito dei suoi clienti dall’estero, Giovanni dice: “Io non faccio spedizioni, il mio lavoro è questo, se vogliono la mia roba sono qui. Gli stranieri negli agriturismi sentono dire di me e vengono a vedermi, ho fatto cose per la California, dei lampadari che son andati a Hong Kong, un fonte battesimale per il Perù …”.

Giovanni Donnini

La bottega ha tanti ambienti: la stanza del tornio e delle forme, quella dove si batte il rame, ma il luogo più suggestivo è dove sono esposti i suoi lavori: l’ex chiesa del Camposantino, costruita nel corso del Seicento per consacrare il terreno del cimitero destinato ad accogliere le vittime della peste; ci sono ancora le lapidi. Qui Nino indica degli scaldini: “Ne ho fatto uno per Roberto Benigni, quando fece il film Pinocchio”. Nel 2012 il Comune di Pescia ha conferito a Benigni la cittadinanza onoraria e gli ha donato uno scaldino di rame di Giovanni, proprio come quello con cui Pinocchio si brucia i piedi nella fiaba di Lorenzini. Curiosando si riscoprono oggetti di cui ormai pochi conoscono il nome o la funzione e si realizza che, insieme al saper fare, se ne va anche la lingua di un tempo: la caldaia dove i pastori preparavano il formaggio, lo scaldino per riscaldarsi con la brace, l’alambicco per fare grappe o profumi, le catinelle per lavarsi e farsi la barba, il paiolo della gente comune e il calderotto dei signori. Uno degli oggetti dal nome più simpatico è la ghiotta o leccarda: “Ci si mettevano le patate, andava sotto il girarrosto e ci cadeva l’untino … erano più buone le patate dell’arrosto”.

Per Giovanni è importante che i bambini osservino come lavora un artigiano: “Diventa un’esperienza di vita e capiscono che certe cose si possono fare. Una classe è venuta dopo la visita al parco di Pinocchio a Collodi”. Nino sorride ricordando le parole di una bimba che gli mandò il suo tema: “A vedere quell’omino lavorare, mi sembrava di vedere Geppetto”.

 

TESTO

Filomena Cafaro

FOTO

Nicolò Begliomini

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