La regista, trentatreenne, è stata premiata in America tra i migliori talenti italiani.
Casa è bella, ma ci si può sempre tornare. Prima meglio farsi spazio e dire di averci almeno provato. E Vanessa Crocini, alla vigilia dei 33 anni, impiantata negli States ormai da tempo dopo aver trascorso la sua infanzia e adolescenza a Montale, alle pendici del suo amato parco dell’Aringhese, con la sua inseparabile telecamera in spalla ci ha più che provato. Tanto che la Primi Dieci Society, l’ente sostenuto dalla camera di commercio e fondato nel 2012 per celebrare le eccellenze italiane negli Stati Uniti, ha steso per lei un tappeto rosso nel cuore della Grande Mela. Tutto per dirle, in una serata di gala in perfetto stile americano con tanto di abito lungo, che tra i dieci talenti italiani under 40 volati in America c’era anche il suo nome. E il suo curriculum.
Non è che l’ultima delle tappe del lungo percorso avviato da Vanessa, inaugurato negli anni dell’università con una borsa di studio che l’ha portata in California. Un colpo di fulmine, tanto che nel 2007 decide di tornare, stavolta da laureata, per alcune esperienze di tirocinio. “Non si pensi che là è tutto più facile – spiega lei –. La competizione è alta e ci sono un sacco di altri giovani che sognano di fare o gli attori o i registi o gli artisti”. Poi Vanessa aggiusta il tiro, affina la ricerca. Capisce che il suo vestito perfetto è il documentario. Arrivano le prime produzioni, tra cui quelle per la Rai, fino all’incontro che segna la svolta, quello con Vasco Rossi.
Per lui Vanessa è production manager nel video musicale “Il mondo che vorrei”. Ed è sempre lui che di fronte al primo grande progetto che porta la firma di Vanessa, decide di sostenerla. Si chiama “Get together girls” ed è un documentario che parla di donne e tentativi di riscatto da una vita che ha portato loro troppe sofferenze. Vanessa vola in Kenia, sola, per raccontare la storia di un gruppo di ragazze sottratte alla strada. Un documentario che farà il giro del mondo e che riscuoterà un ampio successo, tanto da vincere numerosi premi. È il 2011.
Ancora prima, nel 2009, la meta è un’altra, il Ruanda, dove con Alessandro Rocca partecipa alle riprese del documentario “La lista del console” che rievoca il genocidio del 1994. Nel mezzo ci sono tanti altri progetti, dal video musicale per Caparezza alle serie tv come Ubiq in onda su Rai5, fino al più recente programma per il canale albanese Agon Channel, che andrà in onda nei prossimi mesi, e al nuovissimo documentario “Street Poets”, che vede protagonisti quattro giovani con un duro passato alle spalle e la volontà, con l’arte, di dare una svolta alla loro vita a dimostrazione “che l’arte ti stimola e ti salva”.
“Se hai un progetto – spiega lei – la gente in Italia ti dice ‘brava, in bocca al lupo’. Un modo per raccontarti della loro negatività. Ed è questo nel Belpaese il principale nemico della realizzazione personale. Affermarsi è un work in progress continuo, non c’è mai un punto in cui puoi dirti davvero completo o arrivato. Io ammiro chi riesce a restare in Italia, ammiro chi vuole darsi un’opportunità lì. Ma penso anche che nel momento in cui non si riesce a farsi spazio è bene non perseverare. Specie in un campo come l’arte più in generale, dove serve molta determinazione”. Ma di casa, con un oceano nel mezzo, non c’è mai nostalgia? “Quando torno mi sento come una turista – dice lei –. Ma se c’è una cosa che posso dire mi manchi davvero, sono i rumori e i colori di piazza della Sala, con il suo mercato, i suoi banchi chiassosi. Qui c’è il farmer market, ma non è la stessa cosa. Mi manca l’arte della città, le stradine, i vicoli, quelle piccole cose che in una metropoli non trovi”.
TESTO
Linda Meoni