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Fotografia, espansione dell’esperienza fisica

Alla professione ha dedicato, silenziosamente, tutta la vita.

Poche settimane fa avrebbe compiuto settantacinque anni, ma all’inizio di settembre Gianfranco Chiavacci se n’è andato. Si è spento nella sua casa studio di Pistoia, dove stavano i suoi attrezzi, i suoi libri, le sue opere, i suoi esperimenti.

Mi è dispiaciuto non avere fatto in tempo a conoscerlo personalmente. Stavamo tentando di organizzare un incontro con la difficoltà che si ha, quando la malattia è la protagonista, non voluta, della vita delle persone.

Ho scoperto, però, attraverso suo figlio Carlo e Piergiorgio Fornello, il gallerista pratese che segue il suo lavoro, alcune zone della sua ricerca, in particolare quella fotografica. Ho visitato la sua casa dopo la sua scomparsa e ne sono rimasta colpita e incuriosita al tempo stesso.

Chiavacci è stato, soprattutto, un uomo di studio, uno sperimentatore. All’arte ha dedicato tutta la vita con una passione silenziosa, una dedizione totale, completa, che ha preso il  via alla fine degli anni Cinquanta con un interesse nei confronti dell’astrazione, vicino a quello di molti suoi coetanei. Come ha scritto, in un testo a lui dedicato, il suo maggiore studioso, Aldo Iori: «L’astrattismo si declina in molti modi nel corso del novecento ed è sempre meno legato ai moti d’animo e sempre più a un pensiero concettuale nel quale ogni azione è sostenuta dalla logica di una necessità e di una scelta. A questa tradizione è possibile ascrivere molta parte del pensiero di Gianfranco Chiavacci».

Una brusca quanto positiva sterzata al suo percorso esistenziale, soprattutto speculativo, arriva tra il 1962 e il 1963, quando la banca per la quale lavora lo manda a un corso di addestramento all’IBM, per avviare la sua formazione in campo informatico, in vista di un futuro cambiamento epocale, neppure troppo lontano.

Gianfranco Chiavacci

Avviene a questo punto il suo avvicinamento alla logica binaria. Chiavacci è affascinato dalla metodologia procedurale della macchina. Una metodologia che applicherà alla sua ricerca, che subirà, in quel periodo, importanti mutamenti. Notevole, in tal senso, è anche la parte teorica del suo lavoro. Imprescindibili per comprendere il senso di quest’ultima è la lettura dei suoi scritti, l’ascolto delle rare quanto preziose interviste, attraverso il sito a lui dedicato (www.gianfrancochiavacci.it).

In questi anni va collocato anche il fondamentale incontro con Fernando Melani, un altro artista il cui percorso è in buona parte da scoprire. Melani lo presenta e lo incoraggia a entrare nell’ambiente fiorentino della galleria Numero di Fiamma Vigo, dove conosce Lando Landini e Donatella Giuntoli.

In questa luce sperimentale e colta, va letta, anche, la sua ricerca di ambito fotografico. Non tanto perché in essa si possa o si debba cogliere l’applicazione del metodo binario, ma proprio per il particolare atteggiamento dell’artista toscano nei confronti del mezzo.

Del 1977 è il testo Fare fotografia, in cui sono alcune sue importanti riflessioni. Due anni prima era stata organizzata presso la Galleria Vannucci di Pistoia la serata dal titolo Gianfranco Chiavacci, Diapositive, movimento colore. In quell’occasione Melani era stato testimone dell’importanza del ruolo della fotografia nella ricerca del suo più giovane amico. Chiavacci aveva affermato, quanto sarebbe stato poi ribadito nello studio del 1977, che la fotografia  è per lui un percorso attraverso il quale riuscire a ritrovare l’artificiale, ma anche creazione ed espansione dell’esperienza fisica. Si tratta di un chiaro riferimento alle avanguardie europee e alla loro metodologia di lavoro, alla quale Chiavacci si è sempre interessato, riuscendo ad apportare un autonomo quanto prezioso contributo al percorso della storia dell’arte.

TESTO

Angela Madesani

 

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