Vi racconto una storia.
Qualche anno fa, durante un’escursione in una foresta pluviale a nord di Auckland, due ricercatori neozelandesi, Sebastian Leuzinger e Martin Bader, rinvennero un ceppo di kauri (Agathis australis) che aveva delle caratteristiche inconsuete.
Per chi non è un esperto, un ceppo è solo un ceppo, non altro che il resto di un albero ormai morto destinato ad essere consumato dai microrganismi, dai funghi e dagli insetti della foresta, fino a scomparire. Ma agli occhi dei due ricercatori qualcosa non tornava: per quanto un ceppo, i tessuti al suo interno erano restati vivi anche se non aveva foglia alcuna o altro organo in grado di fare la fotosintesi. Come era possibile? Da dove prendeva l’energia e l’acqua
per sopravvivere? Senza le foglie un albero manca della sua fonte energetica perché non può produrre gli zuccheri che gli consentono di vivere grazie alla fotosintesi. Non solo. Non può nemmeno assorbire l’acqua di cui ha bisogno dal terreno perché è sempre dalle foglie, dalla loro traspirazione che un albero trae la forza motrice che permette all’acqua di essere assorbita dal suolo e pompata all’interno dell’albero.
Ora prima di finire di raccontare questa storia e la spiegazione di questo enigma, voglio fare quella che sulle prime vi sembrerà una digressione ma scoprirete più avanti che non lo è.
Noi siamo dominati da una visione antropocentrica del mondo. Cioè pensiamo il mondo dominato e governato dalla competizione e dai conflitti. Noi conviviamo con l’idea che la competizione e la lotta per la sopravvivenza siano il motore dell’evoluzione. È così che immaginiamo il funzionamento delle nostre comunità. Nonostante Darwin. O a causa di una grave distorsione del pensiero di Darwin prodotta proprio da coloro che si autodichiaravano eredi e custodi di quel pensiero rivoluzionario.
Sono loro ad aver imposto l’idea della competizione come forza dominante e regolatrice dei rapporti fra gli organismi viventi.
Non sono bastate a contrastarla le tante voci, altrettanto autorevoli, che si sono levate contro. Penso ad esempio a
quella di Kropotkin, sostenitore della necessità di individuare nella cooperazione o, come lui la chiamava, nel ‘mutuo appoggio’, la chiave di volta su cui si regge l’intera storia dell’evoluzione.
Nonostante oggi il numero delle prove a sostegno del ruolo fondamentale della cooperazione nell’evoluzione delle specie viventi sia considerevolmente cresciuto, continua a essere percepita come marginale rispetto alla solidità della controparte competitiva.
Perché? La mia idea è che la causa principale stia nel fatto che la quasi totalità delle evidenze a sostegno di questa teoria proviene dal mondo delle piante. Ovvero una specie considerata incredibilmente irrilevante.
Starete pensando che sto – come si usa dire – menando il can per l’aia. Torniamo alla nostra storia.
Come faceva quel ceppo a essere ancora vivo? Sebastian Leuzinger e Martin Bader ipotizzarono che ricevesse ciò di cui aveva bisogno dall’apparato radicale degli alberi vicini, grazie a un fenomeno conosciuto come innesto radicale.
Ai più è noto come la pratica agronomica che permette la fusione fra due individui diversi ma affini, per creare un individuo nuovo formato dall’unione dei due bionti (è questo il termine tecnico che si assegna ai due individui che
partecipano all’innesto).
Normalmente si utilizza un portinnesto, che costituirà la parte basale (con le radici) della nuova pianta, e un nesto, che invece formerà la parte aerea (con foglie e frutti). Con l’innesto si crea una completa connessione vascolare fra i tessuti dei due bionti che permetterà la circolazione fra parte basale e parte aerea e viceversa.
In una foresta, come quella dove sta il nostro ceppo, avremo innesti fra parti diverse dello stesso apparato radicale (autoinnesto), innesti fra apparati radicali di alberi diversi ma appartenenti alla stessa specie (innesto intraspecifico) e, infine, innesti fra apparati radicali di alberi appartenenti a specie diverse (innesto interspecifico). Questo fenomeno è noto da secoli ma è stato considerato fino a non molto tempo fa poco più che una particolarità botanica. Dal mio punto di vista, invece, rivoluziona la nostra idea di cosa sia realmente una comunità vegetale. È la stessa ragione per cui Leuzinger e Bader decisero di fare uno studio accurato del ceppo vivo in cui incapparono.
Tornati a Auckland decidono di concentrarsi sulla misurazione dei cicli di assorbimento dell’acqua all’interno del ceppo e degli alberi vicini. Sperano di riuscire a osservare una qualche sincronia che possa far loro stabilire un’effettiva connessione idraulica sotterranea e funzionante. Così, con gli strumenti necessari ritornano nella foresta e iniziano a impiantare sul ceppo e sugli alberi circostanti dei sensori in grado di registrare in tempo reale il flusso idrico all’interno del tronco. Sistemano gli strumenti e ritornano a Auckland per seguire dai loro laboratori il flusso costante di dati proveniente dalla foresta. Ora siccome voglio arrivare alla questione centrale che il ceppo pone e alla morale della storia, vi dico solo che i due ricercatori, sulla base dei dati registrati, arrivano alla conclusione che effettivamente esiste una stretta relazione idraulica fra gli alberi vicini e il ceppo non morto.
La questione è: Perché degli alberi sani dovrebbero farsi carico per un tempo molto lungo di un ceppo?
È qui che torna utile quella che all’inizio poteva apparire una digressione, ovvero la nostra visione antropocentrica del mondo. Il modello predatore-preda non ha nulla a che spartire con il mondo delle piante. Loro esibiscono un comportamento cooperativo perché è il più vantaggioso. Ne cito solo due a titolo di esempio: in un innesto radicale meglio avere vicini sani e soprattutto l’innesto con altri alberi aumenta la stabilità degli alberi e resistono meglio a eventi atmosferici estremi. Ditemi ora se non abbiamo molto da imparare dalle piante?
Testo Stefano Mancuso
Foto Archivio Piante Terra Festival