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Antonio Canova e il Neoclassicismo a Lucca

L’idea di questa mostra non è tanto l’influenza dell’arte di Canova sugli artisti lucchesi, ma una consonanza in luoghi lontani e senza condizionamenti reciproci di due artisti fondamentali: Pompeo Batoni e Antonio Canova.
In entrambi agisce un profondo sentimento di nostalgia. È la memoria dell’antico che si fa mito, una forte, inarrestabile tensione, che rappresenta lo spirito stesso del gusto neoclassico. Il dialogo tra le sculture di Antonio Canova e i dipinti dei pittori lucchesi indica un sentire comune, come vedremo. L’esperienza romana è fondamentale per Canova e procede, con analoghe esperienze ed emozioni, in parallelo con quella del lucchese Bernardino Nocchi. Canova parte da Venezia nell’ottobre 1779, e dopo soste a Bologna e Firenze, arriva a Roma il 4 novembre 1779 in compagnia dell’architetto Gianantonio Selva: questo soggiorno, durato fino al 1780, rappresenta una definitiva folgorazione, un amore senza fine. Grazie all’intercessione di Giovanni Falier, il suo primissimo mecenate, appena giunto a Roma, Canova fu calorosamente accolto da Gerolamo Zulian, ambasciatore veneto presso la Santa Sede, che gli assegnò studio e alloggio a palazzo Venezia. Dai diari che ci ha lasciato sappiamo che Canova visse intensamente le sue giornate capitoline, per visitare – secondo la definizione di Quatremère de Quincy – il «museo di Roma», fatto «di statue, di colossi, di templi, di terme, di circhi, di anfiteatri, di archi di trionfo, di tombe, di stucchi, di affreschi, di bassorilievi». Rivisse le stesse emozioni del Palladio. Gli vennero aperte le porte delle maggiori collezioni romane, le raccolte nei musei Vaticani (dove guardò con molto interesse all’Apollo del Belvedere) e frequentò utilmente la scuola di nudo all’Accademia di Francia. Lavorò in quel tempio per Pompeo Batoni, del quale apprezzò il «disegnare tenero, grandioso, di belle forme», e per un certo periodo si giovò anche degli insegnamenti dell’abate Foschi, con il quale studiò l’italiano, l’inglese, il francese, e lesse i greci e latini, con le basilari nozioni di mitologia classica.
Grazie al sodalizio con Zulian e i Rezzonico, nipoti del defunto Clemente XIII, Canova entrò in contatto con il cospicuo nucleo di artisti veneti a Roma e con molti artisti stranieri: fra quest’ultimi in particolare il boemo romanizzato Anton Raphael Mengs, il pittorefilosofo che, nella sua proposta di imitare i grandi maestri classici, realizzò dipinti che erano vere e proprie illustrazioni delle teorie di Johann Joachim Winckelmann.
Anche Canova fu sostenitore dell’ideale neoclassico promosso da Winckelmann, convinto della superiorità della civiltà greca, da lui ritenuta l’unica ad aver raggiunto la purezza e la virtù nell’arte. In effetti, lo scultore Canova si sarebbe rivelato l’interprete più puntuale e coerente delle teorie espresse da Winckelmann e Mengs, in modi analoghi a quelli del francese Jacques-Louis David in pittura, seguendo la poetica della statua.
Canova, per parte sua, si opponeva alla pedissequa imitazione dall’antico, e intendeva produrre opere originali, in modo creativo, pur ispirandosi ai principi che regolavano l’arte greca classica.
Dopo un soggiorno napoletano dominato dalla visione del Cristo morto di Antonio Corradini, Canova tornò a Roma nel giugno 1780, e si fece spedire il gesso del Dedalo e Icaro, la scultura che venne accolta assai freddamente dagli accademici romani: tra i rari ammiratori vi fu Gavin Hamilton, pittore e antiquario scozzese con il quale Canova stabilirà una durevole amicizia. Intanto, lo Zulian si era ormai convinto che Canova avrebbe dato il meglio di sé solo se si fosse insediato stabilmente a Roma: sollecitato da quest’ultimo, Canova il 22 giugno 1780 tornò a Venezia per chiudere lo studio e ultimare alcuni lavori tra cui la statua del Poleni per il Prato della Valle di Padova. Ritornato a Roma a dicembre, Canova eseguì un Apollo che si incorona su commissione del senatore Abbondio Rezzonico, nipote del papa. Intanto, su suggerimento di Gavin Hamilton, Canova iniziò a lavorare al grande gruppo marmoreo raffigurante Teseo vincente sul Minotauro.
Vero e proprio manifesto della sua arte. L’opera, terminata nel 1783, ebbe grande successo sia in Italia sia all’estero: con grande virtuosismo tecnico, infatti, Canova seppe infondere nella figura di Teseo quella «nobile semplicità e quieta grandezza» che Winckelmann considerava i caratteri più alti dell’arte greca.
Sempre nel 1783 Canova ricevette la commissione del monumento funerario a Clemente XIV, da porre nella basilica dei Santi XII Apostoli, che completò nell’aprile del 1787 nel nuovo studio a via San Giacomo. L’opera lo consacrò quale massimo scultore del suo secolo: erano ormai chiare a tutti le capacità del Canova, che in quegli anni ebbe un prestigio pari a quello di un Bernini o di un Michelangelo.
Il successo del sepolcro di Clemente XIV sollecitò Don Giovanni Abbondio Rezzonico e i suoi fratelli, cardinali Carlo e Giovanni Battista, a commissionare al Canova il monumento funerario allo zio Clemente XIII, per la basilica di San Pietro. Pur sensibile ai modelli berniniani, Canova eseguì un monumento dalle rigorose forme neoclassiche, dove il pontefice, inginocchiato obliquamente sul sarcofago, è «un’imponente figura che respira» come scrisse il Colasanti: in quattro anni portò a compimento l’opera, che venne solennemente inaugurata nella notte del Giovedì santo del 1792,
alla presenza di Pio VI.

La fama raggiunse Canova all’improvviso. Ne conseguirono numerose commissioni: nel 1789 eseguì due statue di Amorini, uno per la principessa Lubomirska e uno per il colonnello Campbell, e nello stesso anno è la commissione per una Psiche fanciulla, ultimata nel 1792. Nel 1793, invece, portò finalmente a compimento l’Amore e Psiche: l’opera fu universalmente apprezzata, ed ebbe tra gli estimatori più appassionati il poeta inglese John Keats, autore dell’Ode to Psyche, e John Flaxman, con il quale Canova iniziò una affettuosa amicizia. L’intensa attività scultorea, tuttavia, aveva affaticato Canova, che iniziò ad accusare forti dolori allo stomaco.
Così, per ristorare le proprie condizioni fisiche, nel maggio del 1792 ritornò a Possagno.
Era la prima volta da quando si era trasferito a Roma che rivedeva i luoghi delle sue origini; ed ebbe un’accoglienza straordinaria: scortato dai compaesani in festa, Canova poté ritrovare il suo primo maestro, nonno Pasino e, a Crespano, la madre.
Ricevuta a Venezia la commissione per il monumento in memoria dell’ammiraglio Angelo Emo, lo scultore fece lentamente ritorno a Roma, facendo tappa a Padova, a Vicenza, a Verona, a Mantova, a Parma, a Modena e infine a Bologna, tutte città dove venne universalmente acclamato.
I riflessi dell’arte canoviana arrivarono anche in Russia, dove Caterina II avrebbe voluto lo scultore presso la propria corte: Canova, declinò il lusinghiero invito, e in segno di ringraziamento eseguì per l’imperatrice una seconda versione dell’Amore e Psiche, oggi esposta all’Ermitage. In questi anni Canova fu travolto dalle commissioni, tanto che nel 1796 disse al Selva: «se avessi parecchie mani tutte sarebbero impiegate»: tra le opere più memorabili di questo periodo l’Ercole e Lica e l’Adone e Venere.
Dal punto di vista politico, questi erano anni assai turbolenti.
Napoleone Bonaparte aveva già concluso vittoriosamente la prima campagna d’Italia, e il 19 febbraio 1797 fu firmato tra il generale corso e Pio VI il trattato di Tolentino, con il quale il pontefice si impegnò a cedere al vincitore opere d’arte e preziosi manoscritti, oltre che Avignone, il Contado Venassino e le Legazioni.
Vi furono aspre polemiche, accese soprattutto da Quatremère de Quincy che a tal proposito scrisse una Lettres sur le projet d’enlever les monuments de l’Italie: ciò malgrado, il convoglio con le opere d’arte (fra cui il Laocoonte e l’Apollo del Belvedere) partì da Roma il 9 maggio Giudicando pericoloso rimanere a Roma, Canova nel 1798 fece ritorno a Possagno. Passò addirittura in Austria, dove fu accolto alla corte di Francesco II d’Asburgo-Lorena, e accettò di eseguire il grande deposito funebre per Maria Cristina d’Austria nella chiesa viennese di Sant’Agostino, su commissione del duca Alberto di Sassonia-Teschen, marito della defunta. L’opera, assai rappresentativa del clima tardo-settecentesco espresso nella poesia sepolcrale, venne completata da Canova nel 1805.
Lasciata Vienna, Canova si recò a Praga, a Dresda, Berlino e Monaco, per poi fare ritorno nella natìa Possagno e, infine, a Roma, che confermò la città congeniale al suo virtuosismo artistico. Il 5 gennaio 1800 Canova fu nominato membro
della Accademia di San Luca, di cui diventò presidente nel 1810 e presidente perpetuo nel 1814. Un nuovo successo nella vicenda di Canova, richiesto nelle corti ditutta Europa.
E anche Napoleone, nel 1803, volle un ritratto. Canova inizialmente fu renitente a mettere la propria arte al servizio di colui che aveva fatto cadere la Repubblica Veneta, ceduta all’Austria in seguito alla stipula del trattato di Campoformido, sollecitato da Pio VII. Tuttavia Canova arrivò a Parigi il 6 ottobre 1801.
Ospitato nel palazzo del nunzio pontificio Caprara, Canova a Parigi divenne l’artista ufficiale del regime napoleonico. La prima opera che eseguì in Francia fu il colossale ritratto del Bonaparte nelle sembianze di Marte pacificatore, nudo con clamide su una spalla, la vittoria in una mano e la lancia nell’altra.

Canova pensava di aver realizzato un’opera inevitabile: ciò non fu, poiché Napoleone, nel vedersi completamente svestito, pensò al rischio del giudizio dei Parigini e ordinò di riporre la statua nei depositi del Louvre e di ricoprirla con un velo. Malgrado si fosse inserito con successo nella scena artistica parigina, avendo contatti anche con Jacques-Louis David, in questo periodo Canova fu profondamente amareggiato, sia per l’inglorioso destino toccato alla sua scultura, ma soprattutto per l’infausta sorte di Venezia e per la continua fuoriuscita di opere d’arte italiane, portate in Francia con le traumatiche spoliazioni napoleoniche.
Pertanto, nonostante le insistenze di Napoleone perché rimanesse stabilmente a Parigi, Canova decise di ritornare in Italia.
Così scrive il 7 novembre 1802 ad Antonio D’Este: «Non crediate che io resti qui, che non mi vi tratterrei per tutto l’oro del mondo […] véggo troppo chiaro che vale più la mia libertà, la mia quiete, il mio studio, i miei amici, che tutti questi onori […]».
Ritornato a Roma, Canova fu accolto trionfalmente: Angelica Kauffmann offrì un pranzo, in cui gli venne fatto dono di varie allegorie di Vincenzo Camuccini dove egli è incoronato da una personificazione del Tevere. Divenne socio a Milano
dell’Accademia di Belle Arti ed «ispettore generale di tutte le Belle Arti per Roma e lo Stato pontificio, con sovrintendenza ai musei Vaticano e Capitolino e all’Accademia di San Luca»; e in questi anni continuò a lavorare al monumento sepolcrale per Maria Cristina e al deposito funebre per Vittorio Alfieri, scomparso nell’ottobre del 1803, per richiesta della duchessa d’Albany nella chiesa di Santa Croce a Firenze.
Ma ad accrescere maggiormente il suo prestigio fu l’esecuzione del ritratto di Paolina Bonaparte Borghese nelle sembianze di Venere vincitrice: l’opera, terminata nel 1808, raffigura la sorella di Napoleone su un moderno divano, con in mano il pomo della vittoria, in realtà trasportando Venere nel presente, e anticipando in un tempo immobile Audrey Hepburn.
Sempre in questo periodo Canova strinse amicizia con Leopoldo Cicognara, il conte ferrarese che gli affidò la protezione di un giovane Francesco Hayez.
Sentimenti, affetti. Anche stavolta, tuttavia, le vicissitudini belliche di Napoleone turbarono profondamente Canova, che visse «giorni tristissimi» (come attesta una iscrizione sul gesso della Danzatrice col dito al mento) assistendo silenziosamente all’occupazione di Roma da parte dei Francesi (1808) e alla conseguente unione degli Stati Pontifici all’Impero francese.
Ciò malgrado, nel 1810 accettò comunque di recarsi a Parigi su invito del generale Duroc, che gli aveva commissionato la statua dell’Imperatrice Maria Luisa. Giunto a Fontainebleau l’11 ottobre 1810, già il 29 ottobre poté mostrare al committente il modello in creta della statua.
Canova, tuttavia, si intrattenne poco in Francia, tanto che, dopo aver ottenuto notevoli benefici per l’Accademia di San Luca, si incamminò sulla via del ritorno, nonostante le offerte di Napoleone.
Sostò a Milano, Bologna e Firenze, e da quest’ultima città indirizzò una lettera chiarificatrice a Quatremère de Quincy: «Sappiate che l’imperatore ha avuto la clemenza […] d’incitarmi a trasferirmi in Parigi appresso la Maestà Sua anche per sempre, se io vi acconsento. Io parto adunque al momento, per ringraziare la munificenza sovrana di tanta benignità onde si degna onorarmi, e per implorare in grazia di rimanere al mio studio e in Roma, alle mie solite abitudini, al mio clima fuori del quale morirei, a me stesso, e all’arte mia. Vengo perciò a fare il ritratto dell’Imperatrice, e non per altro, sperando che la Maestà Sua voglia esser generosa di lasciarmi nel mio tranquillo soggiorno, dove ho tante opere, e colossi, e statue, e studi, che assolutamente vogliono la mia persona, e senza de’ quali io non potrei vivere un solo giorno».
Nel 1814 Giuseppina di Beauharnais, prima moglie di Napoleone, commissionò a Canova il gruppo scultoreo delle Grazie, che verrà replicato per John Russell, sesto duca di Bedford.
Un’opera simbolo dei rapporti di Canova con l’antico è la Venere italica, ispirata, non derivata, dalla Venere de’ Medici che sostituisce, completamente rinnovandola. Lo intese perfettamente Ugo Foscolo: «Io dunque ho visitata, e rivisitata, e amoreggiata, e baciata, e, ma che nessuno il risappia, ho anche una volta accarezzata, questa Venere nuova… Se la Venere dei Medici è bellissima dea, questa ch’io guardo e riguardo è bellissima donna; l’una mi faceva sperare il paradiso fuori di questo mondo, e questa mi lusinga del paradiso anche in questa valle di lacrime». All’opera fu riservato con tutti gli onori il posto del capolavoro perduto agli Uffizi; e quando la Venere de’ Medici tornò a Firenze, fu trasferita a Palazzo Pitti, dove ancora si trova.
Sebbene fosse stata spedita per sicurezza da Firenze a Palermo, e affidata in custodia ai Borboni di Napoli, la Venere de’ Medici, tra le più celebrate statue della Grecia classica (la sua presenza è documentata per la prima volta nel 1638 a Roma, a Villa Medici, da cui il nome) era stata sottratta dai commissari francesi del Direttorio che la inviarono a Parigi per volere di Napoleone.
Inizialmente, il re d’Etruria, Ludovico I di Borbone, valutò di commissionare a Canova una semplice copia, ma l’artista preferì eseguire un’opera nuova e del tutto originale, secondo il precetto condiviso con Andrea Chenier: «Facciamo versi antichi su pensieri nuovi».

In questa temperie, nel volgere degli anni della sua coerente ispirazione muliebre, nasce il busto di donna per il conte Pezzoli di Bergamo, di intatta purezza espressiva, con il vario agitarsi dei capelli: i riccioli che scendono sulla fronte e sulle tempie dalla scriminatura, il denso e disordinato muoversi delle ciocche raccolte dal nastro, con una naturalezza raggiunta dopo diverse prove. C’è un coerente idealismo che convive con una inedita sensualità in questa invenzione particolarmente viva. La scultura fu resa nota nel mio libro Canova e la bella amata (La Nave di Teseo, 2022), come una delle prime teste ideali, la Musa Erato, datata 1811, per il conte Pezzoli di Bergamo ora in casa Bolzesi a Cremona.
In questa occasione sono lieto di presentarne il gesso fino a oggi sconosciuto, e non presente a Possagno, nel gruppo destinato dal Sartori, di cui pure si espone un gesso inedito, ai Canal suoi parenti, e qui ricostituito nella Collezione Canova di Banca Ifis.
Dodici teste ideali in prima assoluta esposte a Lucca, nel visionario allestimento di Cesare Inzerillo, tra Antonio Canova e Roberto Capucci. Come Paolina Borghese e Audrey Hepburn.
Canova, in quel 1811, eletto principe dell’Accademia di San Luca, al culmine dei pubblici riconoscimenti, sembra turbato dal richiamo dei sensi e dal riaffacciarsi nella piena maturità, dopo averlo soffocato nella operosa giovinezza, del piacere «il più dolce e a lui più desiderabile di riamare amanti donne».
E questa condizione rispecchia nella nuova scultura, mentre timidamente si riaccendono i sensi per fantasmi femminili che hanno, di volta in volta, in quel tempo ritrovato, il volto di Minette, di Delphine, di Juliette. L’amore agita e anima quel marmo. Francesco Leone sigilla in modo efficace la sintesi di ideale e naturale di questo momento dello scultore, al
culmine della sua ricerca: «Queste teste dunque, come le danzatrici, fermano la bellezza in un punto di perfezione assoluta, in quell’istante impalpabile in cui si è appena compiuta e in cui non ha ancora cominciato a sfiorire. Il loro stato è quasi indefinibile perché, grazie alla maestria della sua tecnica, Canova riusciva a irrorare queste sembianze ideali di piccoli dettagli naturalistici (nei capelli, nelle impercettibili espressioni degli occhi, nei movimenti appena accennati delle labbra, nelle mosse del collo) e di sottolineature psicologiche, rendendole quasi umane». Il segretario Missirini, cui certo non mancavano la vena letteraria o l’ispirazione poetica, inquadrandole in un classicismo che tornava a Raffaello, scrisse molto efficacemente delle teste ideali: «Come il divino Raffaello, e tutti gli altri grandi artisti, andava il Canova in cerca dell’ammirabil bellezza, specialmente nelle sembianze; e quando s’avveniva in alcun leggiadro aspetto, di quello facea diligente ricordo, e poi girandoselo per la fantasia effigiava alcune sue teste e busti, che veramente avresti detto tenere di una specie intelletta: così sapea egli abbellir le sembianze, e dar loro spiritualità e divinità». La prima testa che lo scultore realizzò fu quella di Clio (o Calliope). Era il 1811, e si ispirò al gruppo delle Muse del Museo Pio Clementino in Vaticano, scavate nella villa di Cassio a Tivoli nel 1774, anche se l’ideazione va messa in qualche modo in relazione con il ritratto idealizzato di Elisa Baciocchi Bonaparte, datato 1812, a noi noto dal modello in gesso che si conserva a Possagno.
Della Clio sono documentate diverse versioni autografe, tra cui quella di Palazzo Pitti a Firenze, commissionatagli da Giovanni Rosini, ultimata nel 1812 e identificata come Calliope, e quella inviata in dono a William Hamilton nel 1818 oggi all’Ashmolean di Oxford.

Secondo la prassi canoviana, queste repliche autografe si differenziavano tra loro per piccole varianti nella resa dei riccioli della capigliatura, trattenuti sulla nuca dal sakkos. Isabella Teotochi Albrizzi vide la Calliope di Rosini nel piccolo sacello che il letterato le aveva fatto allestire nella sua casa pisana all’arcivescovado – un vero e proprio tempietto irradiato da luce zenitale, come Canova avrebbe amato, e adornato dalle incisioni dei rilievi di gesso dello scultore – e ne inserì la descrizione nella seconda edizione delle Opere di scultura e plastica di Antonio Canova, il primo catalogo illustrato dell’opera canoviana, uscito da Capurro a Pisa tra il 1821 e il 1824. Sulla bellezza indicibile di questa testa, di cui esaltò l’andamento delle «picciolette masse ricciutelle» della chioma che lasciano scoperta la fronte e accarezzano le gote, la Teotochi Albrizzi scrisse: «Vedesi Calliope star con aria profonda meditando, e pare che scolpito porti nella fisonomia l’animo ed il pensiero.
Non si oserebbe dire un motto, nè fare un cenno per tema di perdere l’aureo concetto, che essa sta formando, e che si vede quasi spuntarle sul labbro, pieno di soave decoro».
A queste si aggiunge ora felicemente la testa ideale della musa Erato, prima il marmo commissionato dal conte Pezzoli, oggi il gesso in collezione della Banca Ifis. Alla verifica delle opere e dei giorni di Canova, in quegli anni si registrano i momenti più significativi della vita e dell’attività dello scultore a Roma.
E sono gli stessi del lucchese Bernardino Nocchi, che muore prima di Canova, nel 1812.
Iniziamo dal momento dello stabile soggiorno di Canova a Roma, nel 1780. Nocchi era arrivato a Roma dieci anni prima con il collega Stefano Tofanelli.
I due non furono accettati come studenti da Pompeo Batoni, ma riuscirono a entrare nella scuola di Niccolò Lapiccola, miscelando sensibilità neobarocche con suggestioni neoclassiche. La prima tela dipinta a Roma dal Nocchi fu Il sacrificio di Jefte (Lucca, Cappella Arcivescovile, 1768-1770 circa), commissionata dall’arcivescovo Filippo Sardi, allora canonico di San Martino.
I riferimenti sono alla cultura figurativa tardo-barocca toscana, con suggestioni dallo stile di Lapiccola, come si vede anche nel Tobiolo e l’Arcangelo Raffaele, il cui bozzetto è a Lucca in collezione privata. L’episodio fu affrescato da Nocchi a Roma nel 1770-1780 nel refettorio dell’Accademia ecclesiastica alla Minerva, insieme alla Cena in Emmaus. L’apprendistato a fianco di Lapiccola determinò una svolta fondamentale nella maturazione del Nocchi e gli consentì di
inserirsi nel mondo artistico romano, senza mai ottenere il titolo di accademico di San Luca, mancandogli il determinante sostegno di Mengs e Batoni.
Nel 1772 Lapiccola lo associò alla sua bottega e, nel 1773, lo chiamò a lavorare al restauro degli affreschi cinquecenteschi di Villa Giulia, dove fu il primo dei giovani impegnati nell’impresa, tra i quali era anche Tofanelli.
Contemporaneamente, iniziò gli affreschi nella sala dei Fasti prenestini in palazzo Vidoni Caffarelli, al tempo proprietà del cardinale Gianfrancesco Stoppani, morto nel 1774 prima di vederli terminati (Virtù teologali, Sibille, Virtù cardinali, Evangelisti, Profeti). Nell’ambiente artistico romano, l’opera fu decisiva per l’affermazione di Nocchi che non si allontanò più dalla città, declinando nel 1775 l’invito del padre a occuparsi delle decorazioni nel palazzo del nobile Francesco Bernardini a Lucca. Seguirono anni di difficoltà economiche durante i quali lavorò, insieme a Tofanelli, sempre sotto la direzione di Lapiccola, alle decorazioni nel palazzo papale di Castelgandolfo e, nel 1776-77, su commissione del principe Marcantonio IV, agli affreschi di palazzo Borghese a Roma: Diana che discaccia Callisto, Apollo che consegna Esculapio al centauro Chirone, Giove che appare nel suo aspetto divino a Semele, Sileno ubriaco mentre i pastori lo legano e la ninfa Egle gli tinge la faccia con le more. I dipinti sono espressione notevole di un «neoclassicismo à la grècque» (Mellini 1997, p. 322).
Per l’incisore Giovanni Volpato, tra il 1777 e il 1779, copiò, su ela, gli affreschi di Raffaello nelle Stanze Vaticane. Nel 1779 iniziò a frequentare l’atelier di Batoni, considerato, a Roma, il primo per la pratica del disegno.
Dalla fine del 1779, durante il regno di Pio VI, per la corte pontificia e grazie alla protezione della famiglia Braschi, ricevette importanti commissioni, fra cui la decorazione della volta della sagrestia della cappella Sistina e la richiesta per un piccolo «ritocco sul Giudizio universale di Michelangelo». Nel 1781 iniziò in Vaticano gli affreschi dell’appartamento e della cappella privata del maggiordomo di Pio VI, il cardinale Romualdo Onesti Braschi, nipote del pontefice.
Dal 1783 al 1787 fu attivo come restauratore dei Sacri Palazzi: l’intervento più importante fu il restauro nel 1786 del ciclo pittorico della cappella Paolina, con gli episodi della Conversione di san Paolo e della Crocifissione di san Pietro di Michelangelo. Risale a quegli anni La pittura sulla Rupe Tarpea mentre consegna il ritratto di Pio VI alla Fama, 1787, allegoria apologetica del disegno, dipinta nella volta della distrutta sala delle Stampe nella Biblioteca Vaticana.
A partire dal 1787 lavorò nel palazzo della Consulta al Quirinale alle decorazioni dei tre appartamenti sul lato sud, residenza del cardinale Romualdo Onesti Braschi. In particolare si occupò di tre stanze nell’appartamento di rappresentanza, di cinque stanze in quello invernale e di una stanza, il cosiddetto Gabinetto nella retrocamera della parte del cortile, in quello estivo.
Interamente decorato da Nocchi nel 1788 con dipinti a grisaille e motivi a grottesche che ripetono il quarto stile pompeiano, il salone mostra affreschi con il mito di Cerere che ricorre a Giove per riavere Proserpina rapita da Plutone, al centro della volta.
L’impresa, oggi frammentaria, fu terminata nel 1790. Alla fine del nono decennio risale anche la decorazione a tempera, di 44 cammei istoriati, a monocromo, entro partiture architettoniche (1788-1790) nella volta della galleria dei Quadri, oggi degli Arazzi, nel nuovo Museo Pio Clementino in Vaticano. Intorno al 1792 Nocchi copiò, per incisioni, le statue antiche che ornavano il palazzo Borghese e il casino della villa Pinciana a Roma stampate, nel 1821, da Ennio Quirino Visconti. Del 1794 è Il pianto di Ulisse (Lucca, Museo Nazionale di Palazzo Mansi), dipinto che gli fu commissionato, insieme al pendant Ulisse ritornato a Itaca, dal nobile lucchese Carlo Conti. Degli anni della maturità si ricordano il Transito di san Giuseppe e Sant’Agostino confonde gli eretici manichei, del 1785-87 circa, per la chiesa di San Secondo, a Gubbio; Santa Chelidonia che medita la Passione di Cristo, del 1788, per la chiesa di Sant’Andrea, a Subiaco (quadro commissionato da Pio VI che era stato abate commendatario sublacense); la Morte di sant’Andrea d’Avellino del 1790 circa, per il duomo di Spoleto; la Trinità con una Gloria d’angeli e quattro santi cappuccini, del 1796 (pala d’altare destinata al convento dei Cappuccini di Tor Tre Ponti); l’Immacolata Concezione, del 1804, per la cappella
dell’Ospedale civile di Macerata); Sant’Eupilio martire, del 1801-1803, per la chiesa di San Nicola all’Arena, Catania; la Gloria di santa Pudenziana, del 1803-1806, per chiesa di Santa Pudenziana, Roma, altar maggiore (lodata dall’abate Giuseppe Antonio Guattani e commissionata nel 1803, grazie a Canova, dal cardinale titolare, Lorenzo Litta); la Morte di sant’Anna, 1804-1805, chiesa di San Frediano, a Lucca, per la cappella Buonvisi. Anche nella attività di ritrattista, nella quale si era distinto già a Lucca, l’emozione del dialogo vivo con il personaggio, tra umanità e ruolo sociale, con una esecuzione minuziosa, dopo disegni molto attenti, è prerogativa che scalda e fa vibrare la consolidata impostazione neoclassica.

Sono da ricordare: il Ritratto di Pietro Bandettini, antiquario, del 1790 circa (Firenze, collezione privata) il Ritratto equestre del duca Luigi Braschi Onesti (nipote di Pio VI), del 1793 circa (già villa Braschi Theodoli a Zola Pedosa) e il Ritratto di Camillo Borghese, 1798-1799 (Torino, Galleria Sabauda), dipinto durante la Repubblica Romana. La curiosità di studioso e collezionista, documentata da centinaia di libri, piccoli quadri, bozzetti, conversation piece, stampe, frammenti, gessi e statue utilizzati come modelli per le composizioni artistiche, si manifesta nella attenzione per i dettagli e gli arredi trasferiti nei suoi dipinti. La notorietà acquisita gli consentì di lavorare intensamente come Canova, nonostante dal 1797 l’occupazione di Roma da parte dei francesi avesse raffredato le committenze.
Disegnò per l’amico Canova la vignetta di un diploma accademico e riportò su tela diverse sue sculture, fra cui Alexandrine de Bleschamps come Tersicore, 1806-1808 (Lucca, Museo Nazionale di Palazzo Mansi). Nel 1806 fu nominato socio dell’Accademia lucchese Napoleone, insieme a Canova, Morghen, Appiani e David. L’anno successivo, per il cavalier Giovanni Collio dipinse Mercurio annuncia a Calipso che Ulisse deve partire (San Severino Marche, in Palazzo Servanzi Collio), grande tela di soggetto affine al Pianto di Ulisse che si conserva a Lucca; si ricordano inoltre numerosi ritratti di Pio VII, fra cui quello di Palazzo Chiaramonti di Cesena. Nel 1809 dipinse, in posa devozionale, la regina Maria Adelaide Clotilde di Francia (sorella di Luigi XVI) sposa del re di Sardegna, morta in odore di santità a Napoli nel 1802 e dichiarata venerabile nel 1808.
Alla sua rigidezza si contrappone la mirabile esecuzione del basamento della scultura della Pietà, con bronzi dorati di finissima esecuzione, perfetto altare neoclassico, equivalente pittorico di un gruppo di Canova, che certamente lo vide e lo apprezzò.
Il quadro era destinato al papa.
A Nocchi furono affidate altre cinque immagini della venerabile e il ritratto del prete postulatore della causa di beatificazione.
In previsione dell’arrivo di Napoleone e Giuseppina Beauharnais, nel 1811 Nocchi ebbe l’ultimo prestigioso incarico di decorare gli appartamenti del Quirinale con due storie mitologiche, che la morte gli impedì di realizzare. L’esecuzione fu affidata al figlio Pietro, su suo disegno. Nocchi morì a Roma il 27 gennaio 1812. Canova morì a Venezia il 13 Ottobre 1822.

Testo Vittorio Sgarbi

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