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Gianfranco Chiavacci – BINARIO VIVO

Gli sconvolgimenti artistici degli anni Sessanta cesellarono quel torpido wellness socio-economico manifestando, a colpi di colore e polemica, tutta la volontà di conquista intellettuale contro ogni anacronismo. Le Biennali d’arte veneziane susseguitesi in quel decennio furono il paradigma di una consapevolezza vitale e partecipata del pubblico nell’universo artistico, sempre più globale e criticamente esigente: dopo la clamorosa consacrazione della Pop-art del 1964, pionieristicamente arroccata a Venezia tramite l’alfiere Peggy Guggenheim, e prima della contestata edizione del 1968, con artisti solidali e arguti che esposero le proprie opere coperte, emblematica resta la scelta del ’66 di consacrare l’arte cinetica e programmata. Fu inaugurata proprio a margine di quell’Esposizione, nel febbraio del 1967, la prima personale dell’artista Gianfranco Chiavacci presso la storica galleria Numero di Fiamma Vigo. Un evento massiccio per la portata intuitiva e la fermezza teorica di un’arte collimante di tutto il concentrato di un’epoca, attorno alla quale ancora oggi maturano scoperte e rivelazioni. Una rivoluzione, in tutto e per tutto.

Nato nel pistoiese il 1 dicembre del 1936, scenario dove ha lavorato per tutta la sua esistenza, Chiavacci soddisfa le prime esigenze artistiche negli anni Cinquanta, accogliendo la pittura informale, significativa nelle proposte culturali del Dopoguerra, ingrediente visivo di una ricerca filosofica profonda e insaziabile. Se, innegabile, il corso di formazione all’IBM nel 1962 ha fornito all’artista la struttura del pensiero ribattezzato Binarietà, l’acuta osservazione dell’importanza dei sistemi di automazione, della macchina, nello sviluppo di un linguaggio totalmente nuovo e prevalente nella vita quotidiana, non trova paragoni se non con colleghi illustri: da Duchamp, a Munari a Morellet, è nota la creazione di un vocabolario visivo fondante sulla natura meccanica dei media e sulla luce artificiale, i nuovi soli e le nuove stelle cui l’artista contemporaneo trae ispirazione, ma è risolutamente interessante la scelta del Chiavacci di analizzare il mondo da dentro la macchina, rendendo obsoleto qualsiasi estetismo a favore di un poetico concetto.

Non stupisca, dunque, l’affermazione cabrante che sta avvenendo a distanza di Cinquant’anni dalle rivoluzioni culturali, non sorprenda il vedere quadri, carte o fotografie binarie tra i meandri di New York e Zurigo o nelle fiere più prestigiose tra Miami, Budapest, Colonia e Londra da qui a maggio (e chissà dove ancora), perché è in questo momento storico che l’umanità inizia a maturar coscienza di essere dentro la macchina, cominciando ad accettarne la dimensione e rileggendo i pionieri di questo idioma.

La purezza delle opere del Chiavacci verte proprio sulla consapevolezza dell’unicità della propria indagine, coltivata fino all’ultimo respiro nonostante l’appoggio di pochi sostenitori, tra cui il collega Fernando Melani l’”incantatore di atomi” e il suo primo collezionista, Piergiorgio Fornello, ma pienamente sensibile e ricettivo al clima culturale iridescente e sempre più cosmopolita. Tra letture di semiotica e simbologia (soprattutto Eco e Panofsky) la ricerca Binarietà traslittera le forme rigorose e geometriche fino ad approdare nel 1971 all’utilizzo del mezzo fotografico sempre affrontato nella logica del processo-esecuzione risultando eccezionalmente espressivo nell’evoluzione plastica degli scatti di movimenti luminosi, affascinato dal fondamento meccanico e duale dell’otturatore. Con la fotografia Chiavacci conquista una maturità stilistica e raffina la sua teoria, senza tralasciare un percorso pittorico, evoluto in un rapporto più concreto con lo spazio, intrecciando gli elementi fisici delle sue opere in una relazione ideale tra ciascuna di esse e la sua stessa persona (si pensi, per esempio, all’espansione combinatoria dell’autoritratto nel “Progetto per una grande famiglia”, 1979) imbastendo un tessuto artistico fitto e pregiato e ben cucito anche con le sue primissime produzioni (1957) così fino alle più recenti, fin quando, verso il 2007, non dichiara di essere giunto ad uno stato conclusivo, in coincidenza con  l’apparire delle prime manifestazioni di realtà aumentata e dei social network.

A pochi anni dalla sua scomparsa, 2011, mentre tra Rotterdam e New York (rispettivamente al Kunsthal e al Whitney Museum) si celebra l’Arte Cinetica e Programmata, la sua opera più concentrata e viva, l’Archivio Gianfranco Chiavacci, viene oggi gestito dal figlio Carlo e da Meri Marini, titolare della galleria Die Mauer, che con sistematica lungimiranza portano avanti il progetto infinito di Gianfranco, profeta fino all’ultimo di una rivoluzione artistica non intesa come rottura, ma come qualcosa di non ordinato o finalizzato, come il tempo scandito e partito proprio da Pistoia, degna tana.

Luca Sposato

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