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La ricerca interiore nei ritratti

Il ritratto ha radici profonde, la storia dell’arte è infatti costellata di evidenti testimonianze sulll’esigenza fondamentale umana di riprodurre la propria immagine e sarà con il diffondersi della cultura greca, che si affinerà quella ricerca volta ad una raffigurazione fedele delle sembianze reali, fino alla perfezione estetica assoluta. Nel corso dei secoli, il ritratto si è diffuso attraverso la pittura e la scultura, come esperienza accessibile solo ai ceti più abbienti e a personaggi illustri, che affermavano il loro ruolo sociale o politico, celebrando la propria figura anche rispetto alla storia e alle generazioni future.
Bisogna attendere l’avvento della fotografia per assistere ad uno stravolgimento essenziale: il ritratto diventa democratico e si diffonde come fenomeno popolare, al punto che ognuno ha la possibilità di vedere la propria immagine raffigurata e concretamente impressa su un supporto, lasciando una traccia di sé.
Inizialmente la fotografia cavalca questo genere, riportando fedelmente tratti somatici e caratteristiche fisiognomiche dei soggetti, diremmo senza alcuna pretesa artistica. Si diffondono i ritratti perfetti delle celebrità, immortalate in pose studiate, che riproducono la loro immagine idealizzata.

                                                                 Julian Moore, 2009

Ben presto, iniziano ad affermarsi ricerche in cui la riproduzione puntuale del reale, lascia spazio all’interpretazione, all’attenzione verso i dettagli, alle peculiarità e alla gestualità dei soggetti.
L’opera di Richard Avedon (1923-2004), riferimento indiscusso nella storia della fotografia e dell’evoluzione del ritratto in particolare, testimonia una profondità diversa, di cui il mezzo è capace, proprio grazie alla sensibilità interpretativa dell’autore, cui dobbiamo il sovvertimento di alcune caratteristiche, fino a quel tempo dominanti.
La figura umana diviene centrale e il volto è il fulcro dell’azione di riconoscimento, in quanto protagonista dell’immagine. Il ritratto fotografico infatti, a differenza di un’opera pittorica, che può avere un soggetto fittizio, sostiene con forza la reale esistenza della persona ripresa. Ancora di più, possiamo affermare che il ritratto, inteso come forma di rappresentazione della fisionomia di una persona o di un gruppo di persone in posa di fronte ad un obiettivo, è un’operazione basata sulla consapevolezza e sulla partecipazione. È un dialogo che si instaura tra due soggetti: colui che fotografa e colui che viene fotografato. Esiste quindi una relazione che può raggiungere vali livelli di intimità e profondità, da assurgere a vera e propria ricerca interiore, espressa in termini visivi.

                                                                       Lady Gaga, 2010

Ed è questa ricerca interiore ad aver avuto un ruolo primario nel lavoro di Maurizio Galimberti (Como, 1956). Conosciuto come Instant Artist ha reinventato il genere del ritratto, immortalando artisti e personaggi della cultura internazionale. Ritrattista ufficiale di diverse edizioni del Festival del Cinema di Venezia, realizza il ritratto di Johnny Depp, che il Times Magazine pubblica in copertina nel 2003, facendo conoscere la sua arte in tutto il mondo. A distanza di 13 anni, il volto scomposto dell’attore viene pubblicato sulla copertina di Portraits (Silvana Editoriale, 2016), il primo volume antologico sui ritratti realizzati da Galimberti nel corso della sua carriera, che chi scrive ha avuto il privilegio di curare.
Maurizio Galimberti segue idealmente il metodo del pioniere della fotografia Nadar (1820-1910), i cui ritratti avevano sempre lo scopo di entrare in empatia con la persona fotografata, di andare oltre le apparenze e di svelarne i segreti più reconditi. Non si tratta di una riproduzione plastica o di una fotocopia artistica del soggetto, ma di andare a ricercare e a riportare una somiglianza più intima, capace di trasmettere e di far intravedere il carattere della persona.
La sensibilità e l’abilità del grande fotografo, l’ispirazione ai dadaisti e ai futuristi, si rivelano fondamentali nel percorso di un’esplorazione che egli compie da oltre qurant’anni.
Grande sperimentatore, incontra i vertici dell’azienda Polaroid con i quali studia una modalità di utilizzo del Collector – un accessorio in dotazione alla famosa fotocamera, fino a quel momento utilizzato per la duplicazione e la catalogazione di piccoli oggetti – per ottenere una variante dello strumento esistente, che gli consenta di fotografare ad una distanza molto ravvicinata, riprendendo i dettagli nella loro dimensione naturale.

                                                              George Clooney, 2003

Da sinistra verso destra, dall’alto verso il basso, Galimberti instaura un contatto fisico con i propri soggetti, avvolgendoli con la sua Polaroid e imprimendo sulla pellicola, ogni singola porzione dei loro volti, in frammenti che andrà a ricomporre, esattamente come si fa con le tessere di un puzzle. È un’operazione spettacolare e rigorosa, compiuta in pochi interminabili istanti con assoluta maestria. Ed ecco che, magicamente, il mosaico prende forma, seguendo un ritmo paragonabile a quello delle note su uno spartito. Scomporre e ricomporre la realtà, in questo caso i volti dei personaggi ritratti, così come l’artista li ha percepiti in un attimo; quel momento che è puro istinto, metodo e capacità innata di saper vedere i molteplici dettagli, le sfaccettature infinite di un singolo individuo. Un dinamismo lirico in cui, la ricerca di una corrispondenza immediata con la realtà, diventa immersione totale nel paesaggio interiore dell’essere umano.

Testo Benedetta Donato, curatrice e critica di fotografia

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