Le città sono prima di tutto relazioni.
Lo sono prima di essere luoghi, piazze, centri commerciali.
In un’epoca in cui le tecnologie ci riversano in tempo reale le immagini di monumenti, paesaggi e siti patrimoniali, la memoria personale è sollecitata soprattutto a far tesoro degli incontri. Con individui in carne e ossa. Con aspetti del paesaggio che solo attraverso i sensi e l’esperienza diventano luoghi-per-noi. Cuneese, abituato a frequentare persone schive per abitudine culturale, dei primi incontri con Pistoia ricordo il sorriso aperto e la cortesia delle persone. Il viso di un commerciante che mi descrive le varietà di legumi toscani in una bottega di Piazza degli ortaggi. I consigli di lettura sulla storia dell’arte locale in una delle numerose librerie del centro. I commenti di amici ciclisti sulle pendenze dell’Abetone e su una casa della periferia pistoiese in cui ancora starebbe scritto “W Coppi e Bartali”. L’entusiasmo con cui un signore sulla sessantina mi racconta l’origine della curiosa via “Abbi Pazienza”. Narra il mito che, in un’indistinta epoca medievale, un sicario attese nella penombra la sua vittima: vedendo arrivare un uomo avvolto nel mantello, lo accoltellò alle spalle. Ma non era lui la vittima designata e quando, in punto di morte, il malcapitato si girò, l’aggressore non trovò di meglio che dirgli: “Abbi pazienza”!
Per noi che non siamo toscani, Pistoia è un accidente tra Lucca e Firenze. La reminiscenza di quella “Pistoiese” di cui raccoglievi figurine da bambino. Poi, quando ci passi un week end, scopri un grande centro storico e vivo al tempo stesso. Un borgo che ti dà l’impressione di unire la bellezza di un villaggio medievale alla vivacità di una città tutt’altro che musealizzata. Ho camminato spesso per le vie strette e tonde del centro alla mattina presto, prima che la città si svegliasse. Ammirando i colori pastello dei primi raggi del sole su torri e campanili. Tracciando itinerari disordinati tra via Cavour e via del Carmine, nella prima cinta della città. Un parco pedonale Pistoia, fatto di vie strette e improvvise piazze. Come scrisse Michel de Certeau, camminare in città è un atto creativo, come leggere un giornagiornale. Ognuno scorre a modo suo strade e articoli, trasformando le costrizioni in libertà, costruendo relazioni in spazi inizialmente anonimi.
Adriano Favole, antropologo e consulente al programma del festival; immagine di un evento del festival.
L’ultima volta in cui sono stato a Pistoia era gennaio: alle undici e mezza di sera, una sera luminosa e appena fresca, piazza del Duomo era completamente vuota. Dal Palazzo comunale si sentivano le note del concerto organizzato per la giornata della memoria. Vuota di viventi, la piazza trecentesca della Cattedrale di S. Zeno, del Battistero di S. Giovanni in Corte, della Torre di Catilina, ispirava tuttavia pensieri sulla moltitudine di generazioni che ha varcato quella piazza. L’insolito vuoto si rivelava pieno di presenze eteree. Che raccontano di invasioni e conflitti con Firenze, di pesti, di mercanti che affollano le vie attorno a piazza Duomo. Pistoia è una città che trasuda atmosfere di commercio: banchi in pietra, tettoie, insegne artistiche, decori. Via degli Orafi, via del Lastrone (il lastrone di pietra su cui si disponeva il pesce), via dei Fabbri, via Stracceria raccontano nei loro nomi traffici e contrattazioni.
Anche quando sono (apparentemente) vuote, piazze, città e colline raccontano dunque di relazioni, presenti e passate. Il paesaggio, e specialmente il paesaggio rurale toscano, come quello che circonda Pistoia, è insieme realtà e metafora di quel mondo multiculturale in cui viviamo, e non da oggi. Boschi e terrazzamenti di olivi e viti ricoprono le colline, mentre la piana è il territorio dei vivai, di cui Pistoia è uno dei più importanti centri a livello mondiale. Come sostiene Mauro Agnoletti, uno dei maggiori esperti del tema, il paesaggio italiano è una cornice perfetta attraverso cui (ri)costruire un’identità in crisi. Perché il paesaggio è unità proprio nella molteplicità culturale degli attori che hanno contribuito a costruirlo. Alberi, terrazzamenti, tipi di colture, erbe officinali, persino la fauna raccontano la diversità dei popoli che si sono alternati nel territorio italiano. Un po’ come i mercati. Piazza della Sala a Pistoia è il cuore dell’“identità” della città, ma lo è proprio in virtù delle molteplici lingue e culture che la popolano, dei vestiti africani esposti, dei sentori di spezie esotiche che si uniscono alle specialità toscane.
Pistoia per me è soprattutto, per il ruolo che svolgo nel Festival Dialoghi sull’uomo (con alcuni amici abbiamo ribattezzato Piazza d’Uomo, il centro della città!), un lungo week end di maggio, a volte rovente a volte fresco e piovoso, passato tra i grandi tendoni di piazza Duomo e piazza S. Spirito, tra la libreria “condivisa”, sintesi delle librerie della città e l’austero teatro Manzoni fino alla sublime Sala del consiglio nel Palazzo comunale. Migliaia di persone arrivano a Pistoia in quei giorni, spesso per la prima volta. Al di là dell’evento in sé, il Festival è rivelatore di quella caratteristica che gli studiosi chiamano il “capitale sociale” di una città. Vale a dire la trama, più o meno fitta, che lega associazioni di volontariato, gruppi culturali, enti e istituzioni, scuole. Da questo punto di vista Pistoia è una città ricca, molto ricca, almeno a paragone con altre città e paesi che frequento abitualmente. Il festival scatena una (sin)e(n)ergia creativa tra le varie componenti del tessuto sociale: i giovani volontari delle scuole che introducono gli incontri, il gruppo dei fotografi, le guide che accompagnano i turisti per la città.
Il riconoscimento di “Città italiana della cultura 2017” è il giusto premio per una città ricca ma non supponente, antica e vivace al tempo stesso, accogliente ma attenta alla qualità della vita dei suoi abitanti, con un tessuto sociale robusto e dalla trama fitta.
A maggio, ogni anno, migliaia di persone partecipano all’evento.