Porta la firma dell’architetto olandese Maurice Nio l’ampliamento del Centro per l’Arte Contemporanea Luigi Pecci di Prato, riaperto con la mostra inaugurale “La Fine del Mondo”, curata dal Direttore Fabio Cavallucci.
I rinnovati spazi del Centro Pecci impressionano per il carattere simbolico e cromatico dell’anello dorato che avvolge l’originario edificio di Italo Gamberini, mentre la grande antenna è fisicamente innestata nella struttura come una immagine simbolica, ideale strumento di ricezione e invio delle più innovative istanze dell’arte del presente.
Nei primi mesi di apertura già 40mila visitatori hanno vissuto gli stimoli e le provocazioni delle numerose opere in mostra, pensata anche come piattaforma sulla quale sperimentare un esercizio di distacco dal presente: osservare la nostra quotidianità senza più certezze, accettando senza catastrofismo che il nostro mondo è finito e che innumerevoli cambiamenti attraversano il presente nel quale viviamo. È lo stesso Direttore Cavallucci che suggerisce al visitatore di provare a “vedere il tramonto del presente da lontano”, leggere dentro questa fine come se fosse “un momento infinitesimale nella curva enorme del tempo e dello spazio”.
Le opere di Henrique Oliveira e Robert Kusmirowski.
Una mostra che invita a relativizzare emotivamente i grandi cambiamenti del nostro presente. In questa ottica si inseriscono i numerosi linguaggi artistici e la forte interdisciplinarietà dell’esposizione: pittura, scultura, fotografia, video e installazioni sono connesse fra loro e messe in relazione con temi di natura scientifica, geologica, sociale e antropologica. Raccontare la fine del mondo è possibile solo se questo nostro universo è indagato profondamente, narrato nelle sale attraverso le ricerche di artisti viventi e di nomi ormai classici della storia dell’arte: Marchel Duchamp, Umberto Boccioni, Lucio Fontana, Pablo Picasso. Nella prima grande sala espositiva i tramonti di Hiroshi Sugimoto e Andy Warhol sembrano formare una cintura di luce in diretto contatto con i soffitti crollati di Thomas Hirschhorn e la pungente “Foresta Pietrificata” (2003) di Jimmie Durham. L’artista statunitense nella sua opera pietrifica letteralmente una stanza di ufficio, ricoprendola con del cemento, così da creare un presente fossile e un cortocircuito visivo e temporale di un ambiente a noi familiare e scontato. Henrique Oliveira, invece, con un’opera monumentale invita il genere umano ad entrare nel suo “Transcorredor”, un vero e proprio viaggio a ritroso nella storia abitativa dell’uomo.
L’installazione è infatti ideata come un percorso esperienziale negli ambienti che l’uomo ha costruito per proteggersi, da quelli artificiali fino a quelli naturali: pareti di abitazioni moderne e antiche, grotte e caverne fino al tronco di un albero. Le ere geologiche, la misura del tempo e l’indagine delle leggi della fisica sono temi affrontati nelle sale che precedono la stupefacente opera di “Di come la terra provi ad assomigliare al cielo II” dell’artista cubano Carlos Garaicoa. Una pavimento luminoso crea la percezione di osservare una città di notte, ma immediatamente questa immagine sembra trasformarsi in un cielo stellato, nel nostro universo infinito. Un impatto emotivo altrettanto intenso è dato dall’incontro con l’opera di Tadeusz Kantor, “Bambini al banco da La classe morta” (1989), a ricordarci quante generazioni di studenti non hanno poi realizzato i loro sogni. Nelle ultime sale della mostra, infatti, compare fisicamente la figura umana con tutte le contraddizioni della società contemporanea, raccontate da opere anche impressionanti o crudeli, presentate da artisti quali Pëtr Pavlensky, Pussy Riot, Santiago Sierra, Andrey Kuzkin. Un racconto ulteriormente rafforzato dall’installazione “Head On” dell’artista cinese Cai Guo-Qiang: un branco di 99 lupi riprodotti a grandezza naturale si lancia verso un muro di vetro, metafora degli errori della nostra esistenza, che evidentemente non riusciamo a intravedere davanti a noi, proprio come sottolinea Cai Guo-Qiang: “Le barriere invisibili tra le persone o le culture sono molto più difficili da distruggere”. L’ultima sala della mostra vuole raccontarci i momenti conclusivi della nostra esistenza. Robert Kusmirowski in un grande spazio fisico e concettuale ha realizzato un’installazione che accompagna il visitatore alla scoperta della propria memoria nel momento che precede la morte, riempiendo le pareti di oggetti della nostra comune esistenza, nobilitati da un candore paradisiaco e sottolineando la straordinaria importanza della vita di ciascuno, nonostante la fine del “nostro” mondo.
TESTO
Emanuel Carfora
FOTO
Ivan D’Alì
Archivio Centro Pecci