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La natura sono io io sono natura

Da quando ho iniziato a muovere i primi passi lungo un piccolo torrente dell’Appennino tosco-romagnolo, ho avvertito in modo istintivo di essere parte di qualcosa che non era semplicemente il teatro delle mie avventure. Ho avuto la grande fortuna di trascorrere lunghi periodi della mia prima infanzia in un contesto di grande bellezza e biodiversità, le Foreste Casentinesi, coltivando la passione per le scienze naturali senza alcun freno, né filtro. Nel torrente ho imparato a riconoscere la molteplicità delle forme viventi, dagli invertebrati come i tricotteri e i gamberi di fiume, ai numerosi vertebrati: trote, rospi, salamandre, ululoni dal ventre giallo, vipere e natrici dal collare, e un infinito numero di insetti legati agli ambienti umidi. La vegetazione era l’ombrellone che dava riparo e creava il fresco necessario a sopravvivere in quelle torride giornate estive, indossando solo un paio di calzoncini e vecchie scarpe da ginnastica. La natura, in tutta la sua delicata magnificenza, era parte di me, e io mi sentivo parte di lei. Parafrasando ulteriormente, potrei dire che la natura ero io, io ero la natura, e questo era molto semplicemente ciò che sentivo. Parole come queste sembrano il pronunciamento di un qualche filosofo ambientalista moderno, eppure esprimono un sentire che appartiene non solo all’innocenza e all’incontaminazione dell’infanzia, ma anche ad un’epoca non lontana che i nostri stessi antenati hanno vissuto.

                                                                         Mia Canestrini

Non c’è bisogno di andare a cercare popoli indigeni lontani, tesorieri dell’animismo e di altre filosofie affini, ma è sufficiente volgere gli occhi indietro e osservare quale fosse la nostra relazione con gli elementi naturali.

Prima dell’avvento della scienza e del Cristianesimo. Due forze contrapposte che tuttavia hanno messo l’uomo su un indiscutibile piedistallo. La religione lo ha elevato al rango di Dio, invitando l’uomo a fare della natura ciò che vuole. La scienza lo ha alienato dalla natura, affinché potesse acquisire una prospettiva distaccata per l’osservazione, l’analisi, la catalogazione e il controllo dei fenomeni naturali. Il conforto che viene dalle pratiche religiose occidentali, così come i benefici del progresso scientifico, sono innegabili. Ma il nostro rapporto con la natura, e di conseguenza il nostro interesse ad averne cura, ne sono usciti logorati. Ciò che da circa trent’anni definiamo biodiversità, cioè la diversità della vita sulla Terra, per molti è banalmente un insieme di risorse più o meno utili all’umanità nella corsa allo sviluppo economico.
Gran parte dell’opinione pubblica fatica a trovare un senso all’esistenza di certe specie se non in termini meramente utilitaristici, e gli scienziati falliscono spesso nel fornire quel senso e promuovere uno stile di vita più sostenibile.

                                                                     Zoologa, divulgatrice, scrittrice, Mia Canestrini

Ciò che manca, con ogni probabilità, è la capacità di recuperare e far rivivere la sacralità della natura e il senso di appartenenza, che non può che essere mosso dall’empatia.

Da circa due secoli la nostra società sembra essere piombata in un’era di esaltazione culturale, ipertecnologica e cacofonica nella molteplicità dei linguaggi utilizzabili. La frattura tra cultura e natura creata da religione e scienza si è allargata, e oggi molti di noi stentano a riconoscersi come un tassello fondamentale degli ecosistemi che occupiamo, sfruttiamo e modifichiamo incessantemente. L’assenza di una identificazione è però una prerogativa tutta occidentale, sebbene anche l’occidente presenti qualche piccola sacca di resistenza: i popoli indigeni, cioè i gruppi etnici che occupano da migliaia di anni le loro terre e che non hanno subito alcun tipo di pressione ideologica, conservano intatta l’immedesimazione con la natura. Per molti di essi lo stesso concetto di natura non esiste, come non esiste la dicotomia natura – cultura. Ogni elemento, l’acqua, le rocce, le piante, gli animali, ha una utilità e una dignità intrinseche. Tutto è vita, e tutto è spirito: in questi termini per i popoli indigeni è impossibile non prendersi cura del Pianeta, sia esso rappresentato da una foresta pluviale, un deserto, una steppa o dalla tundra artica. Avere cura del Pianeta è in ultima analisi avere cura di sé stessi e del
proprio futuro. La stessa Organizzazione Mondiale delle Nazioni Unite riconosce il ruolo fondamentale delle comunità indigene nel preservare la biodiversità per le generazioni future e contrastare i cambiamenti climatici. Le loro pratiche di uso del suolo e delle risorse garantiscono livelli di biodiversità pari o superiori a quelli rilevati all’interno delle aree protette, parchi nazionali e riserve naturali, di tutto il mondo. Volendo ricordare le nostre origini, per lungo tempo anche i nostri avi europei hanno vissuto in armonia e equilibrio con la natura, preservando habitat e specie, garantendo la funzionalità degli ecosistemi, e contribuendo a creare le condizioni per una maggiore biodiversità. Le comunità umane, a qualunque latitudine e longitudine, hanno dunque un ruolo fondamentale nel ricucire lo strappo tra natura e cultura.
Significa recuperare quell’immedesimazione necessaria con il proprio territorio, per riscoprire come la nostra identità passi attraverso i suoi tratti naturali più peculiari. Una riscoperta che non ha bisogno di filtri, e che forse può essere avviata proprio dai bambini e dalle bambine che istintivamente si fondono con la natura e i suoi paesaggi non sapendo nulla né di Dio, né della scienza.

Testo Mia Canestrini

Foto Nicolò Begliomini

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