Era metà agosto e mi trovavo a Palermo in giro per le mostre di Manifesta, la biennale europea di arte contemporanea che ogni due anni si tiene in una città diversa, quando mi chiama Umberto Buscioni.
Faceva molto caldo, ma in quel momento ero all’interno dell’Orto Botanico, lontano dalla confusione. Nella sua breve telefonata Umberto mi informava che con molta probabilità, in autunno o in inverno, gli sarebbe stata dedicata una mostra importante a Palazzo Fabroni di Pistoia. Era molto felice, ma al solito un po’ turbato e preoccupato. “Passa a trovarmi quando torni, appena puoi”, concluse così la conversazione. Fissiamo giorno e ora, lo trovo già dietro la porta ad aspettarmi e andiamo subito in studio.
UB: Sarà una mostra importante, vorrei che ci fossero molti degli ultimi quadri. Vorrei portarne almeno venti o trenta, ma come diceva Serafino Flori (gallerista illuminato e generoso che tra la metà degli anni Sessanta e la metà dei Settanta, fu tra gli animatori dell’arte contemporanea tra Montecatini e Firenze supportando, tra gli altri, l’opera di Buscioni, NdR) meglio un quadro di meno che uno di più.
Poi ci sediamo, come molti anni fa quando stavo scrivendo la tesi sul suo lavoro, davanti ad alcune tele, in particolare Piange nel mio cuore. Iniziamo a parlare di pittura.
UB: Sai, la pittura è tutta concettuale, nella pittura è la pelle che conta più del significato, è la pittura che ti eleva verso la spiritualità. Non ho mai dipinto pensando a un momento particolare, ho sempre dipinto e basta, ma questi lavori che abbiamo qui davanti, li lego a dei ricordi, ma prima ho fatto i quadri e poi li ho legati a dei ricordi. In questo quadro, ad esempio, rivedo un momento preciso: mi ricordo un giorno di malinconia e di lieve pioggia di quando ero ragazzo e c’è una poesia di Verlaine che mi fa riaffiorare questo ricordo.
Continuiamo a parlare, a spostare tele fino a quando mi chiede di appoggiare al cavalletto Sposalizio fiorito e Il cappotto dei nostri inverni, due opere del 2015. Questi due quadri sembrano veramente una summa del lavoro di Umberto, si ritrovano condensati molti dei suoi elementi, dalla finestra alla camicia, ai cieli azzurri.
UB: Vedi questo è il cappotto che uso per stare nello studio in inverno, quando fa freddo. Appena arrivava la fine di settembre mia moglie Bianca me lo preparava e lo tirava fuori dall’armadio. È un cappotto scuro, sembra elegante, ma ci sono questi tocchi di colore, che in realtà sono delle macchie di pittura, è un cappotto da lavoro.
Le macchie, in effetti, sono di un rosa “buscioni” che si ritrova spesso nelle opere dell’artista. Il cappotto è blu scuro, su sfondo grigio. Si avvicina l’inverno, uno dei tanti inverni del Maestro, ma è come se il quadro racchiudesse quell’istante che in tanti anni si è ripetuto: tirare fuori il cappotto per dipingere, quel cappotto da cui sembra uscire fuori un cielo azzurro, un cielo felice, il cielo della sua pittura. Ecco che da sotto il cappotto sbuca una camicia che sembra issata su una gruccia, che forse è una croce ma potrebbe essere anche una finestra, altro oggetto chiave delle poetica del Maestro, quella finestra attraverso cui Buscioni ha inquadrato i cieli degli anni Sessanta, o che ha poi chiuso con una tenda per farci concentrare sugli oggetti presenti nella stanza.
UB: Questo segno sembra davvero una croce, che è poi un segno che si ritrova anche in diversi quadri che ho dipinto negli anni Settanta. La croce è un simbolo universale, non necessariamente religioso, anche se penso che la pittura abbia sempre qualcosa di religioso. In questo quadro, è vero, ci sono tanti elementi della mia pittura, ma mi fa pensare molto anche alla mia famiglia.
SB: Parlavi di “pelle della pittura”. Ricordo che con il professor Renato Barilli avevamo osservato questa tua attenzione all’epidermide delle cose, che ritroviamo affrontata in modo diverso durante i distinti momenti della tua ricerca. In fondo la predilezione per oggetti ed elementi di stoffa ne è la testimonianza. Anche le motociclette che hai dipinto non venivano dalla realtà ma dai dépliant, quindi avevano già subito una prima elaborazione. Come se tu volessi veramente estrarre l’epidermide dalle cose, che non significa restare in superficie.
UB: La superficie presuppone una profondità, ma tutto si riversa sulla superficie, la pittura è sempre un po’ metafisica, nel senso che va oltre.
SB: Dicevi che la pittura è sempre stata concettuale. Mi viene da pensare alle tue opere, come Epidermide, degli anni Settanta quando, in un momento di “crisi” per la pittura, periodo in cui molta ricerca artistica esce dalla superficie della tela pittorica per praticare lo spazio con installazioni, performance e arte concettuale, tu rimani fedele alla pittura, sicuramente ne avverti la crisi e l’affronti. I tuoi oggetti “pop” spariscono, rimangono delle superfici, a volte dei particolari ingranditi. Il gesto pittorico si fa minimo e i colori spesso si attenuano. È il tuo modo per difendere la pittura. Anche quando riproduci un materiale come il marmo, lo riduci alla leggerezza di una carta da parati. Come se anche qui ne estraessi una pellicola. Sta proprio in questa “pelle” allora il segreto della pittura? Quale verità, quale mistero riesci a estrarre dipingendo? Hai avuto ragione a difendere la pittura che continua a essere una lingua viva.
UB: La pittura va oltre l’intenzione del pittore, lo diceva anche Picasso. Ci sono dei quadri che non mi sembra di aver dipinto, come se la pittura fuggisse da me, come in un quadro che s’intitola Invito al Viaggio. Allora dipingere diventa come andare oltre se stessi. Maurizio Calvesi ha definito la mia pittura “ascensionale”, per un progressivo allontanarsi dalla terra, forse per avvicinarsi in qualche modo al mistero. Dipingere per me significa cogliere l’anima segreta delle cose.
Cambiamo stanza, andiamo nel soggiorno. Sul tavolo ci sono molti cataloghi delle mostre fatte da Buscioni in questi anni, alcune copie della piantina di Palazzo Fabroni e un elenco provvisorio dei quadri che Umberto vorrebbe esporre. Poi intravedo un libro di Verlaine ingiallito e scompaginato dall’uso. Umberto senza dire niente si siede e inizia a leggere: “Piange nel mio cuore come piove sulla città. Qual è questo languore Che penetra il mio cuore? O bruir dolce della pioggia in terra e sopra i tetti! Per un cuor che si annoia oh il canto della pioggia!”