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Mauro Bolognini

Nel 2008 uscì il “Castoro cinema” dedicato a Mauro Bolognini, di Pier Maria Bocchi e Alberto Pezzotta. Non mancavano certo interventi critici sul regista, ma era la prima volta che veniva prodotta una così esaustiva monografia. Non ci lasciammo sfuggire l’occasione, e subito invitammo gli autori al nostro Festival. Nel dibattito che fece seguito alla presentazione intervenne Ivano Paci, che dopo alcune considerazioni chiese in modo diretto: quale film di Bolognini si può considerare il suo capolavoro? Una domanda così esplicita e solo in apparenza semplice costrinse Pezzotta a una risposta articolata. Se ricordo bene, incalzato da Paci, alla fine fu costretto a suggerire un titolo, La notte brava. Il senso vero della risposta era tuttavia un altro, e cioè che con molta difficoltà si poteva individuare un titolo che si staccasse in modo netto dagli altri. Se proprio si doveva andare in cerca a tutti i costi del Bolognini “migliore”, la scelta poteva cadere, più che su di un singolo titolo, sul quadriennio della strettissima collaborazione con Pasolini, che lo aveva visto prendere parte anche a Marisa la civetta, Giovani mariti, Il bell’Antonio e La giornata balorda.
Si trattava di una risposta logica e per molti aspetti condivisibile, ma tutta sulla difensiva. Forse inconsapevolmente si allineava alla vulgata critica sul regista, secondo la quale la lunghissima carriera cinematografica (dal 1953 fino al 1994) raggiungeva prestissimo il suo acme, sul finire degli anni ’50, per poi declinare sempre più malinconicamente.

                  Bolognini guarda attraverso la lente di un otturatore

Se si pensa che a quegli stessi anni appartiene un film come La Viaccia (1961), che molti altri critici con qualche ragione pongono ai vertici della carriera del regista, se si pensa che Pasolini prediligeva Giovani mariti, diventa difficile smontare un simile pregiudizio. Eppure qualcosa si sta muovendo. Pier Maria Bocchi, molto recentemente, ha individuato ne La corruzione (1963) il capolavoro di Mauro, allineandosi al pensiero di Carlo Chatrian. Quando mi chiamò per avere in prestito la pellicola del film, da proiettare a Locarno all’interno del Festival di cui era direttore artistico, Chatrian mi disse che lo riteneva senza dubbio il prodotto più interessante e più attuale di Bolognini. Uno dei maggiori esperti in materia, Jean A. Gili, facendo il consuntivo della rassegna parigina della Cinémathèque del 2019, ha scritto invece che il suo capolavoro è L’eredità Ferramonti (1976). Catherine Spaak, che di film importanti in carriera ne ha girati parecchi, pochi anni prima di lasciarci mi aveva detto che considerava Madamigella di Maupin (1966) “un piccolo capolavoro”. Ovviamente si trattava di un giudizio di parte, ma pur sempre significativo. Un altro giudizio di parte è quello che ho avuto modo di raccogliere da Aldo Buti, che ama La Certosa di Parma (1982) forse perché in quella serie televisiva, per la prima e unica volta nella carriera, Bolognini ebbe alle spalle una produzione che non lesinò le risorse. Si tratta, lo dicevo, di un giudizio interessato, ma non si può dimenticare che la collaborazione del costumista è stata lunga e articolata, non limitata a pochi episodi. Un autorevole giudizio che non corre il rischio dell’autocitazione è invece quello di un altro collaboratore di lungo corso, lo scenografo Francesco Frigeri, che ha pochi dubbi, ferma restando la qualità dei film precedenti e successivi, nell’individuare l’eccellenza di Bolognini in una precisa trilogia degli anni tra il 1974 e il 1976: Fatti di gente perbene, Per le antiche scale e L’eredità Ferramonti.
Come si vede la casistica diventa assai più ampia, senza dimenticare che ci sono anche molti altri titoli, nell’arco di tempo che va da Arrangiatevi! (1959) fino a La storia vera della Signora dalle camelie (1981) e oltre, che potrebbero legittimamente reclamare un posto in prima fila.

                Mauro Bolognini, Claudia Cardinale e Jean Paul Belmondo al Grand Hotel

Tra quelli possibili viene voglia di ricordarne almeno un paio. Senilità (1962) traduce con efficace e lieve rispetto il capolavoro di Svevo, riuscendo in un’impresa tutt’altro che semplice. A distanza di sessant’anni Trieste ricorda ancora con grande affetto quell’esperienza, resa indimenticabile proprio grazie alla sensibilità registica di Bolognini. La sua poetica, che si può condensare nella formula del “lasciare un margine all’inespresso”, trova magnifici esempi anche nei particolari apparentemente insignificanti. Pochissimi fotogrammi dedicati alla casa di Angiolina inquadrano l’abitazione che fu di Virgilio Giotti, un poeta dialettale stimato da Gianfranco Contini e da Pier Paolo Pasolini. In un’altra scena, quella in cui Emilio va in cerca dell’amico scultore Balli, l’ambientazione è in un bar cittadino. Seduti a un tavolino Balli e il suo piccolo cenacolo non stanno discutendo d’arte, ma d’amore. Si intuisce però con chiarezza che i compagni dello scultore sono anch’essi pittori o scultori triestini. Ebbene, per girare quella scena Bolognini volle come comparse quattro autentici artisti che all’epoca, il 1961, operavano in città. Tutto, come sempre, inespresso, lasciato scivolare senza alcuna sottolineatura.
Qualche parola anche per un altro titolo, Gran bollito (1977). Recentemente sta attirando l’attenzione di produttori e distributori, perfino con propositi di remake. La storia della saponificatrice, quasi un unicum nella filmografia del regista, è un film che lasciò perplessi se non interdetti. Eppure a distanza di anni sta avendo riletture interessanti, anche grazie ad alcune splendide prove attoriali ma soprattutto per la qualità delle soluzioni registiche.

Tre manifesti di film diretti dal regista pistoiese, da sinistra a destra: Dante Manno, Poster per Il bell’Antonio, 1960, Collezione Orsucci, Lucca, foto Lucio Ghilardi; Poster per Metello, 1970, Collezione Andrea Baldinotti, foto Lucio Ghilardi; Foto busta per La viaccia, 1961, Collezione Orsucci, Lucca, foto Lucio Ghilardi.

A questo punto il senso di questa breve carrellata dovrebbe essere chiaro. Non c’è alcun dubbio che l’attività a cavallo tra gli anni ’50 e ’60 rappresenti un momento di assoluto rilievo; ma non dovrebbero neppure esserci più dubbi sull’inconsistenza delle valutazioni che hanno accompagnato per lungo tempo il regista, secondo le quali dopo quella fase ci sarebbe stata una parabola discendente.
È ovvio che ci sono prove più o meno riuscite, ma Bolognini rimane Bolognini sempre, conserva inalterate le proprie qualità; non tradisce lo spettatore e non tradisce se stesso.

Testo Roberto Cadonici

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