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Pinocchio in ogni angolo del mondo

Che cosa comporta il tradurre “Pinocchio” nelle lingue e nelle culture di tutto il mondo? In primo luogo la possibilità di trasmettere una storia che riguarda uomini, animali (tantissimi nel libro di Collodi!), cose che si animano, come un pezzo di legno che diventa un burattinobambino.
Siamo quindi nel regno del fiabesco, dove i confini tra i vari ambiti della realtà sono facili da attraversare, le metamorfosi sono continue, l’incredibile non esiste o comunque va superato. Ma ciò fa parte dell’immaginario folklorico di civiltà già antichissime e ancora oggi consente di comparare favole e fiabe diffuse in aree persino molto lontane, per arrivare a racconti di tribù nomadi ben precedenti a quelli ora attestati.

Ecco quindi che un grande “Atlante” su tutte (o quasi) le traduzioni e le trasposizioni di Pinocchio nel mondo può consentire un’analisi molto interessante, innanzitutto di come vengono accettati oppure modificati aspetti che sono tipici del testo di partenza, ma possono risultare di difficile comprensione presso i pubblici di arrivo, specie fra i bambini. Però, nello stesso tempo, la storia nel suo sviluppo narrativo interessa davvero in tutto il globo, come spiega bene il curatore Giovanni Capecchi nella sua lucida e ricca “Introduzione”: le nazioni attuali che non hanno mai avuto una qualche conoscenza di Pinocchio sono poche (collocate, e se ne comprendono le ragioni, specialmente nell’Africa australe), mentre si trovano attestazioni in territori assai remoti rispetto all’Italia, dal Sud America al Tibet.
Prendendo proprio quest’ultimo caso come specimen dei 96 capitoli che compongono il volume, accompagnati da sei percorsi iconografici, si trova all’inizio un’introduzione alla lingua e alla cultura locale, utilissima per collocare al meglio le versioni di “Pinocchio”. Vengono poi indicate le caratteristiche di queste ultime, a volte numerose, altre una sola; spesso derivate da una buona conoscenza dell’originale ma in qualche circostanza mediate da ulteriori traduzioni (qui, quelle cinesi); alcune volte lasciate il più possibile con l’atmosfera collodiana, altre adattate alle forme locali di racconto fantastico-allegorico, nel contesto tibetano il “Gtam rgyud”. Ecco allora che il titolo generale dell’opera diventa la “Storia fantastica dell’Omino di legno”, e Pinocchio è “colui che commette errori”, Mastro Ciliegia il “Signor naso rosso” e così via.

Ma se si leggono di seguito le accuratissime schede, divise per continente e approntate da 140 ottimi studiosi e studiose, si ricava davvero l’impressione di un grandioso mosaico che varia di continuo i colori delle sue tessere, benché il disegno, la famosa silhouette di Pinocchio, resti la stessa. Certo, per citare Marco Baliani, che nel 2004 ha curato il celebre progetto teatrale “Pinocchio nero” con i bambini delle periferie di Nairobi, gli effetti locali possono essere molto diversi, per esempio se hai sentito tante storie di piante che si animano, e quindi non ti stupisci all’inizio del racconto collodiano, ma invece non hai mai avuto a disposizione cibo in quantità e il paese dei balocchi non sai nemmeno immaginartelo: quindi interpreti il finale come il riscatto di un personaggio colpito da tante sventure, e tuttavia trionfante e in condizioni positive. Il perbenismo che molti lettori italiani, persino d’eccezione come gli scrittori Luigi Malerba e Giuseppe Pontiggia, colgono nella conclusione di “Pinocchio” non è quindi considerato tale in contesti che attendono dalle storie la speranza di un miglioramento.

Peraltro le trasposizioni del capolavoro di Carlo Lorenzini non comportano soltanto una traduzione più o meno fedele. Spesso sono le immagini che accompagnano il testo a modificare la sua ricezione.
Sotto questo aspetto, l’“Atlante” dimostra con sicurezza che un discrimine molto forte nella fortuna di “Pinocchio” è segnato dall’uscita negli Stati Uniti del film di Walt Disney nel 1940, arrivato poi, in anni anche parecchio successivi, ovunque nel mondo. Se prima di quella data prevalgono le rielaborazioni dell’iconografia delle prime edizioni a stampa
(molto importante quella originale di Enrico Mazzanti del 1883), in seguito le variazioni sono sempre più forti: mentre in molti casi si coglie la volontà di avvicinarsi alla rotondità e alla dolcezza del modello disneyano, in altri si accentuano invece le componenti più introverse e oscure del testo collodiano, che evoca spesso la morte e addirittura fa assassinare una prima volta il burattino nel capitolo 15, con la macabra impiccagione che doveva sancire la conclusione della storia, per fortuna superata dall’autore a grande richiesta del suo pubblico. E tuttavia anche lo strano disprezzo con cui il bambino Pinocchio, nel finale, guarda il sé stesso burattino, lasciato scomposto su una sedia, non può non colpire la fantasia dei disegnatori: in fondo, è come se si dovesse sancire la regolamentazione dell’Es, la parte ribelle che si coglie nell’inconscio, e poi magari nelle azioni di ogni essere umano, da parte di un Super-io che certo Collodi tende ad esaltare, con scopi pedagogici, e però non costituisce la parte più coinvolgente dell’opera.

Semmai, come direbbe Ermanno Cavazzoni, Pinocchio resta un ‘miscredente’, che sa di dover agire in un certo modo ma poi fa il contrario, che inganna ed è ingannato, che fa il furbo però ha un buon cuore, eccetera.
Oltre a questi preziosi materiali, che davvero rispondono alla richiesta di tanti studiosi e amanti di “Pinocchio”, ossia di avere a disposizione una mappa accurata della sua accoglienza in contesti culturali di ogni parte del mondo, l’“Atlante” fornisce notizie sulle tante rielaborazioni letterarie, teatrali, cinematografico-televisive, e ora anche in internet. Non mancano neppure i ricordi personali di come il burattino-bambino è stato recepito nella formazione di scrittori e intellettuali: un esempio, per tutti, riguarda Antonia Arslan, che in un breve ma delizioso racconto rievoca
il suo incontro con il “Pinocchio” ad Aleppo, con “le lettere dell’alfabeto armeno, complicate e seducenti come ricami, [che] danzavano come le rune di un misterioso linguaggio”.
Un’immagine assai suggestiva che potrebbe fungere, in conclusione, come metafora del fascino e dell’incanto che il testo di Collodi, come dimostra questo prezioso “Atlante”, ha diffuso e diffonde in tutto il mondo.

Testo Alberto Casadei

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