Con molta probabilità tanti non sanno che il nome della nostra città, Pistoia, è strettamente legato al pane e a raccontarcelo è proprio un Pistorienses, Nicola Giuntini, storico panificatore quarratino appartenente ad una famiglia che da sei generazioni si occupa di arte bianca.
Tutto parte dal secondo secolo avanti cristo – inizia Nicola – quando i romani, nel loro avanzare verso nord, arrivati dove adesso sorge la città trovarono un accampamento, probabilmente ligure, e lo occuparono per poi destinarlo al vettovagliamento delle truppe, probabilmente in transito verso la Spagna per soccorrere SAGUNTO assediata da Annibale, dandogli il nome di Pistoria – declinazione di Pistores (fornaio) – quindi letteralmente “luogo dove si fa il pane”. Di sicuro oltre ad altre cose, a Pistoria si faceva il pane, anche se – come lo intendiamo oggi – si è cominciato a produrlo più tardi perché i Romani impararono a farlo dai greci
a seguito della conquista romana della Grecia che avvenne dal 146 a.c. in poi. Precedentemente i romani facevano una sorta di polenta di farro o fave che chiamavano puls. Con molta probabilità i romani iniziarono a dedicare questo avamposto, nel frattempo divenuto oppidum o castrum, alla produzione del pane, tra i 20 e i 50 anni dopo la conquista del luogo. Questo legame tra la nostra città e il pane viene poi confermato dal grande Plauto che due secoli dopo ne “I Captivi” scherza sul doppio senso del nome degli abitanti pistoiesi.
foto storica del forno Giuntini nel 1964
Giuntini che è Presidente Regionale ASSIPAN e che per un breve periodo, da vicepresidente vicario, ha ricoperto anche il ruolo di Presidente Nazionale è un po’ la memoria storica della panificazione toscana.
A proposito dell’importanza del pane e dei suoi derivati nella nostra regione, pensate – continua Giuntini – che l’Accademia della Crusca in una ricerca di 20 anni fa ha determinato che in Toscana ci sono ben 504 modi diversi di chiamare la focaccia, prodotto che noi a Pistoia chiamiamo “Cofaccia”, invertendo le prime due sillabe, per non parlare poi della denominazione “coppia” di pane, tipica della nostra zona, che probabilmente deriva da “una coppia di libbre di pane” ma su questo ancora non siamo riusciti a fare chiarezza. Nel pane toscano non c’è il sale e questo molto probabilmente è dovuto ad una antica diatriba tra Firenze e Pisa con questi ultimi che mettono una tassa sul sale per finanziarsi e i fiorentini che smettono di utilizzare il sale per fare il pane in modo da riuscire a contenerne il prezzo. Oggi il consumo del pane è calato molto rispetto al primo censimento sul consumo di questo prodotto che fu fatto addirittura nel 1831 dal Granduca di Toscana e che evidenziò come Monsummano fosse il luogo dove se ne consumava di più in assoluto con 1400 grammi a testa al giorno, un dato ben diverso dagli 80 grammi di oggi, i 160 di quando ho iniziato a lavorare io e i 250 dei tempi di mio padre.
Piero Capecchi
A Pistoia, inoltre, è nata l’idea di costituire un Consorzio di promozione e tutela del pane toscano DOP, voluto fortemente da Mauro Capperi, panificatore di Chiazzano e presieduto per un po’ di tempo da Piero Capecchi, altro storico fornaio pistoiese che con il suo lavoro è stato determinante per la crescita di questo prodotto.
un’immagine storica del forno Capecchi
Creare e tutelare un pane che fosse rappresentativo della Toscana – ci dice Piero Capecchi – è stata un’intuizione di Mauro Capperi in collaborazione con la CNA. La pasta madre del Pane Toscano DOP è stata creata incrociando tre paste madri provenienti da tre panifici diversi (Capecchi e Giuntini di Pistoia e Domenici di Livorno) e il mix ottenuto delle tre madri provenienti da ambienti diversi ha dato vita ad un’unica pasta madre con un giusto apporto di lieviti e batteri che è stata studiata dall’Università di Pisa.
La facoltà di Agraria dell’Università di Firenze ha invece studiato le varietà di grano determinando che in Toscana sono presenti varietà a cariosside rossa e bianca che grazie al rapporto pedo climatico particolare della zona di produzione (pisano e senese in particolare) crescono in maniera unica e particolare, non riscontrabile altrove. Incrociando i dati e gli studi dei due atenei è nato quindi un pane a pasta madre senza sale, cotto a legna bruciando le fascine, realizzato con farine a germe di grano prodotte in Toscana e controllato su tutta la filiera di lavorazione grazie all’ottenimento, nel 2016 a Bruxelles, della DOP. Un prodotto che ha avuto grandissimo successo anche durante il periodo caratterizzato dal lock down per la pandemia da Covid, grazie al fatto di essere sempre perfettamente commestibile per diversi giorni dopo
essere stato sfornato.
Testo Lorenzo Baldi
Foto Nicolò Begliomini