Lo sguardo con cui gli artisti osservano una città è sempre intrigante: spesso la loro sensibilità ha la capacità di disvelare luoghi che, seppur a noi ben noti, ci appaiono del tutto inediti.
La loro visione, siano essi scrittori, fotografi, pittori o architetti, risuona come un’eco poetica capace di aprirci alla lettura degli spazi urbani con l’entusiasmo di una nuova scoperta. In questo senso possono essere lette le testimonianze di personalità come Giovanni Michelucci, Piero Bigongiari o Gianna Manzini – per citarne solo alcune del secolo a noi prossimo.
Tra questi sguardi non ordinari sulla città, dovremmo includere anche quello di Fernando Melani (Pistoia 1907-1985), artista astratto che, nell’ambito di una ricerca fotografica condotta a partire dal secondo dopoguerra, ci regala una serie di immagini inusuali di Pistoia.
Il suo punto di vista del tutto atipico – negli anni Cinquanta unico artista astratto in una città di pittori figurativi – lo porta a scegliere la fotografia non tanto come documentazione di una realtà in atto, quanto come strumento di verifica delle proprie teorie artistiche. L’idea centrale è che il fotogramma come registrazione di eventi luminosi nello spazio, potesse essere considerato il frammento più rappresentativo di una situazione data, poiché saturo d’informazioni visivo-spaziali.
Lo stesso Melani esemplifica questo concetto parlando dello scatto fotografico come del tassello di un cocomero che è prelevato a testare la maturazione dell’intero frutto: “con la foto abbiamo il mondo già dato, è lì davanti … non resta che scegliere il ‘tassello’, la fettina e mettere in questa il massimo informativo spingendo ai lati del mirino… esplorando la scena alla sua massima intensità … allora i ritmi, gli equilibri, le angolazioni, i rimbalzi e un po’ di ‘sentire’!”.
Foto di Fernando Melani. Comune di Pistoia, Casa-studio di Fernando Melani, Archivio fotografico. Luoghi della città da angolature atipiche.
Scegliendo una posizione decentrata rispetto alla realtà che osserva, Melani rivolge il proprio obiettivo fotografico a cogliere quello che solitamente è considerato marginale al fine di restituire la complessità spaziale dell’immagine. Par di vederlo, nella sua caccia fotografica lenta e flemmatica all’interno della città, cogliere in natura – e come ‘estrazione’ da essa – quegli elementi spaziali e dinamici che capta secondo categorie da lui stesso enunciate: vicino/lontano; sottile/menosottile; opaco/trasparente; poche le diagonali (in opposizione alla prospettiva che crea la visione impostandola tutta sulle diagonali); destra/sinistra; alto/basso. Il procedere della ricerca mette in evidenza l’intenzione di stravolgere il mezzo fotografico nel suo principio elementare di macchina che ‘ferma’ attimi fuggevoli, usandolo piuttosto come un congegno ‘rivelatore’, capace di restituire l’interazione spaziale dei fenomeni osservati attraverso il mirino.
D’altra parte tutto il suo lavoro si fondava sull’assunto di un’arte concepita come una restituzione formale e visibile delle interazioni di materiali disposti in uno spazio saturo di energia (quella dell’universo). La scelta per lo scatto in Melani, dunque, non scaturisce certo dall’adesione a priori a una determinata tematica, quanto piuttosto da una predisposizione d’animo aperta a farsi catturare dai fenomeni dell’ambiente che guarda, lui stesso parte di esso e destinato a condizionare la disposizione degli eventi. Nelle sue immagini fotografiche, di una straniante bellezza estetica, è il senso dell’attesa per cogliere quel ‘tassello’ che in sé rappresenta il momento di maggiore intensità di informazioni: veniamo per ciò catapultati in uno spazio di interazione fisica e visiva di pure forme astratte. Così, per esempio, le fasce bicrome del romanico sembrano rimbalzare tra la facciata di San Francesco e quella del Battistero e trovano eco nelle linee spezzate dei parapetti in ferro battuto, nei raggi dei barrocci a lato del mercato, nei pavimenti di marmo della Cattedrale o nelle impalcature. Schiacciata in una superficie continua di elementi geometrico-spaziali, la città fa capolino dagli squarci dei fondali scenografici dell’Aida, durante il Luglio pistoiese, o dalla cornice di una porta miracolosamente rimasta in piedi tra le macerie della guerra. Melani evidenzia, porta in avanti, mette in luce, e, suo malgrado, predispone i nostri occhi a un ‘sentire’ i luoghi da un’angolatura atipica, solitamente negletta, ma quanto mai interessante, diremmo ‘poetica’.
Sembra scaturirne, oggi, un suggerimento chiaro, anche al di là dello scatto fotografico: cercare con curiosità; favorire in noi stessi un decentramento spaziale rispetto ai fatti e agli accadimenti, potrebbe portarci a una nuova consapevolezza; indicarci una via ‘sensibile’ tanto più interessante di quella che ci vede spesso un po’ ripiegati sulla nostra centrica personalità. Una palestra, insomma, verso il pensiero divergente.
Secondo gli stessi ritmi spazio-dinamici, Fernando Melani progettava una pubblicazione fotografica che anche nell’aspetto grafico, e come in un caleidoscopio, potesse restituire la complessità spaziale delle immagini reali: la pubblicazione non vide la luce ma ne rimane traccia nel volume postumo di Donatella Giuntoli: Fernando Melani. Un’esperienza bio-artistica, pubblicato a cura del Comune di Pistoia nel 2010.
Chi era FM
Fernando Melani, in arte FM, un ‘incantatore di atomi’
Fernando Melani (1907-1985), artista pistoiese iconograficamente fissato nell’immaginario cittadino nella sua pittoresca tuta blu da ‘operaio dell’arte’, inizia la propria esperienza artistica nel secondo dopoguerra. La sua ‘strana avventura’ con l’arte, come l’ebbe a chiamare, prende avvio nel 1945, all’età di 38 anni. Dopo un iniziale avvicinamento alla pittura figurativa a fianco di Alfiero Ceppellini, aveva ben presto intrapreso la strada della non figurazione con pitture dall’estrema semplificazione formale. Lungo gli anni Cinquanta – e per i decenni successivi – il suo lavoro aveva progressivamente incluso una sperimentazione su vari materiali e supporti, abbandonando la pittura ‘tela e pennelli’ per opere di pura astrazione che sempre più si delineano come conglomerati di materiali eterogenei: legno, carta, pigmenti, metalli, residui di colore.
Il suo lavoro si dipana dalla ferma convinzione che l’arte contemporanea non potesse più essere rivolta alla produzione di un oggetto estetico a fini arredativi, ma dovesse piuttosto essere intesa come mezzo conoscitivo dell’universo molecolare ed energetico che tutto comprende. La sua particolare angolatura artistica scaturiva dalla cognizione delle più moderne scoperte della fisica sperimentale. La consapevolezza, infatti, dell’esistenza di un comune dato fisico tra l’uomo e i materiali – ugualmente formati da atomi e molecole –, lo portava a teorizzare l’avvento di un ‘nuovo umanesimo’ della materia e a immaginare opere di completa astrazione formale. Si tratta di una particolare idea di ‘naturalismo’, in cui l’opera d’arte non si pone come imitazione o descrizione, ma come azione di comprensione che parte prima di tutto dall’ascolto dei materiali e delle loro qualità/potenzialità fisico-spaziali. In questo modo l’artista diviene un mediatore, un ‘facilitatore’, con l’unico obiettivo di assecondare e valorizzare i materiali esperiti secondo le loro naturali qualità fisiche. I suoi lavori, significativamente chiamati ‘esperienze’, si collocano dunque sul piano dell’interazione materico-energetico-spaziale: siglati con un numero progressivo e la firma ridotta ai minimi termini delle due iniziali FM, essi abbandonano i supporti tradizionali della pittura per divenire elementi tridimensionali.
Reso inutile ogni tipo di perizia tecnica, la sua è una ricerca artistica incentrata sul silenzio, sull’ascolto e sull’esperienza: l’ottica di un’auspicabile risonanza con l’energia dell’intero cosmo, lo porta alla completa e costante immersione nell’universo sensibile e nelle problematiche suscitate dalle conoscenze scientifiche. Si tratta di un’adesione totale tra arte e vita: “Vorrei poter dire che vivo di quanto enuncio”, scriveva nel 1980 in una sua breve Noterella Personale (pubblicata su “A.E.I.U.O.”, n. 7, marzo 1983). Il materialismo lo allontana da ogni possibilità di sentimentalità nell’arte verso l’idea di un’opera libera da qualsiasi soggettività emotiva e per questo in grado di comprenderci totalmente e di coinvolgerci ‘fisicamente’ grazie a quel dato di comunanza che – consapevolezza scaturita dalla teoria del BIG BENG – ci vuole tutti della stessa sostanza delle stelle.
La Casa-Studio
Immersione totale nel pensiero e nell’opera di Fernando Melani
La Casa-studio di Fernando Melani è ubicata in Corso Gramsci 159. Alla morte dell’artista nel 1985 fu acquisita dal Comune di Pistoia ed è stata oggetto di un completo restauro consolidativo volto a salvaguardare, pressoché inalterati, gli spazi originari.
L’ambiente, completamente incrostato di opere, ci propone una vera e propria ‘immersione’ nel pensiero e nell’opera di Melani che qui lavorò e visse a partire dai primi anni del secondo dopoguerra. L’occupazione degli ambienti avvenne progressivamente nel tempo: inizialmente abitando nella soffitta del terzo piano per poi scendere a impossessarsi degli ambienti del secondo. Le opere presenti riflettono cronologicamente questo andamento e restituiscono il senso di un lavoro proficuo e produttivo che, eccedendo lo spazio disponibile, si ammassa ovunque a discapito dello spazio vitale.
La casa-studio, in effetti, niente concede all’idea di comodità abitativa per configurarsi soprattutto come luogo di sperimentazione teorica e pratica: ben riconoscibili gli spazi un tempo dedicati allo studio e al lavoro con la macchina da scrivere, la biblioteca e il laboratorio; mentre erano quasi del tutto inesistenti gli ambienti dedicati alla convivialità – se si esclude un divano – o ai servizi.
Per la sua assoluta eccezionalità nell’ambito delle case d’artista, questo spazio può, a ragione, essere definito un’opera d’arte globale: le visite guidate in piccolissimi gruppi si rivelano un’esperienza in prima persona davvero unica.
TESTO
Annamaria Iacuzzi