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Quel poema che ispirò Giacomo Leopardi

Nella storia della cultura pistoiese che è riuscita ad avere anche una rilevanza nazionale, Niccolò Forteguerri è stato quasi completamente dimenticato. Eppure la figura di questo sacerdote, diviso tra Pistoia (dove nasce il 6 novembre 1674) e Roma (dove muore il 17 febbraio 1735), merita di essere ricordata e studiata. Niccolò Forteguerri (da non confondere con l’omonimo cardinale, appartenente alla stessa casata pistoiese e vissuto nel 1400) ha condotto, per molti aspetti, una doppia esistenza. Da una parte quella legata agli impegni – necessari per vivere – nella Curia romana: un’esistenza caratterizzata da periodi di ‘fortuna’ ma anche da fasi di maggiore emarginazione e di ostilità da parte di alcuni pontefici; dall’altra parte quella trascorsa a Pistoia, nella sua villa di Pontelungo, che domina ancora oggi il paesaggio circostante, dove si ritirava soprattutto nei mesi estivi. La sua doppia vita corrisponde anche a due aspetti molto distanti della sua opera: il Forteguerri prelato ufficiale è colui che, per esempio, legge la dotta orazione funebre in latino in occasione dei solenni funerali di papa Innocenzio XII; il Forteguerri nascosto, che rivela il suo volto al tempo stesso malinconico e ironico solo agli amici, è colui che, appena libero dagli impegni della Curia, scrive migliaia di versi, che compongono i “Capitoli” e il poema eroicomico intitolato il “Ricciardetto”.
Quando Niccolò Forteguerri muore, il grande pubblico conosce di lui esclusivamente il volto serio del prelato romano. La sua traduzione delle commedie di Terenzio viene stampata proprio nei giorni in cui si conclude il suo cammino terreno; ma, soprattutto, i “Capitoli” e il “Ricciardetto” saranno editi postumi. Anche questo aspetto rende la figura del Forteguerri particolarmente interessante: la parte più importante della sua opera letteraria, quella alla quale dedica ogni momento libero e quella nella quale si esprime con libertà e autenticità, non diventa patrimonio pubblico mentre è in vita, ma sarà conosciuta solamente dopo la sua scomparsa: la prima edizione del “Ricciardetto” è infatti del 1738, mentre i “Capitoli” inizieranno ad essere stampati a partire dal 1765. Questi ultimi, indirizzati soprattutto all’abate Liborio Venerosi, canonico di San Prospero, e, in maniera più occasionale, a nobili pistoiesi e ad amici romani, sono testi poetici dominati dalla denuncia della corruzione e dell’ipocrisia che dilagano nella corte papale, dall’elogio della vita appartata e di campagna, dalla riflessione sulla caducità dei beni terreni sui quali gli uomini concentrano le loro attenzioni, dal tema del tempo che fugge inesorabile. Il “Ricciardetto” è invece un poema eroicomico, composto da 3071 ottave, che riprende la tradizione dei poemi epico cavallereschi, riscrivendola con ironia.

Una cartolina d’epoca della meravigliosa Villa Forteguerri di Spazzavento, che ancora oggi domina il paesaggio, dove il poeta e scrittore passava soprattutto i mesi estivi

Forteguerri inizia a comporre il “Ricciardetto” nell’autunno del 1716. Si racconta che in una serata trascorsa con gli amici nella villa di Pontelungo, a chi riteneva che fosse assai complicato scrivere un poema sul modello dell’“Orlando furioso” di Ludovico Ariosto, Forteguerri rispondesse che l’impresa era tutt’altro che proibitiva e che ne avrebbe iniziato uno, leggendo via via agli amici gli episodi inventati e ispirati da una Musa paragonata a una “rozza villanella”. Al di là della veridicità di questa informazione, resta il fatto che il poema diventa, in ogni momento libero, l’occupazione più importante del Forteguerri, il suo rifugio, la sua isola felice, il territorio (poetico) nel quale rifugiarsi dalle delusioni della vita quotidiana e dalle tensioni della curia romana.
La chiave con la quale riprende la storia della lotta tra cristiani e musulmani è, appunto, quella comica. Personaggi resi illustri dai suoi predecessori, e soprattutto da Ariosto, tornano sulla scena, ma hanno perso definitivamente la loro eroicità: Orlando, solo per fare un esempio, riacquista il senno non dopo che Astolfo è andato sulla luna a recuperare il suo cervello, ma dopo un periodo trascorso a pane e acqua e dopo una solenne scarica di legnate; Rinaldo combatte con un rospo gigante che lo inghiotte con tanto di cavallo: il paladino esce dalla parte posteriore del corpo del mostro, puzza di letame e fa scappare le gentili damigelle che vorrebbe corteggiare. Oltre a riscrivere la storia di personaggi già presenti nei poemi eroicomici del passato, Forteguerri prosegue le vicende e introduce nuovi protagonisti: alla morte di Carlo Magno, è Ricciardetto a prendere il suo ruolo di capo dei cristiani, mentre i figli di Orlando e di Rinaldo (Orlandino e Rinalduccio) sostituiscono i genitori sulla scena; tra gli alleati dei musulmani aggiunge anche i Lapponi, piccoli di statura, il cui nome fa rima con “capponi”: colpiscono infatti nelle parti basse i cavalieri cristiani, rispedendoli castrati a Parigi.
Impossibile ripercorrere le vicende raccontate nel “Ricciardetto” nello spazio breve di un articolo. Impossibile anche accennare alle fonti del poema, che – a parte l’Ariosto – sono numerose. Un’ultima cosa, però, merita di essere ricordata a proposito di questo volume: e cioè che ebbe lettori illustri. Tra questi ci limitiamo a ricordarne tre: Ugo Foscolo, che rammentava il volume in un articolo pubblicato nel 1819 sulla “Quarterly Review”, Carlo Collodi (che forse trae spunto anche dal “Ricciardetto” per l’episodio di Pinocchio e Geppetto nel ventre del Pescecane) e Giacomo Leopardi, che fa riferimento al Forteguerri in due passi dello “Zibaldone” ma che, soprattutto, lo antologizza nella sua “Crestomazia poetica” (1828). Scegliendo cinque passi da inserire nell’antologia che andava componendo per l’editore milanese Stella, Leopardi attingeva in quattro casi al “Ricciardetto” e in un caso ai “Capitoli”. E la sua attenzione si soffermava sui passaggi più lirici e riflessivi, che non mancano nel poema eroicomico e nelle altre composizioni forteguerriane: sui passi, cioè, più vicini (e veramente vicini) alle considerazioni sulla vita umana che il poeta di Recanati andava elaborando. Ma c’è di più. Non solo Leopardi leggeva Forteguerri e proponeva una scelta dei suoi versi ai lettori italiani, ma restava anche influenzato da alcune immagini ed espressioni che trovava nei componimenti del prelato. Tanto che, come abbiamo più diffusamente documentato in un saggio pubblicato su “Studi e problemi di critica testuale” (dicembre 2022), alcuni versi di celebri canti leopardiani, come “Il sabato del villaggio”, sono debitori proprio nei confronti del “Ricciardetto”.

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