La vestale, al maschile, era Paolo Begliomini, un volontario dell’Associazione “Amici di Vivaio”, delegato già da alcuni anni a questo “storico” ufficio.
Ormai è solo un evento turistico che attira gente da ogni parte, ma le sue radici sono ben affondate nella tradizione montanina; quello del carbonaio-macchiaiolo, infatti, è stato per secoli un vero e proprio mestiere e, per condurlo al meglio, occorrevano competenze scientifiche non da poco, di tipo meteorologico, architettonico-ingegneristico, fisico-chimico e raffinate conoscenze dell’arte ustoria, perché la catasta di legni sapientemente disposti deve cuocere lentissimamente, dall’alto verso il basso e all’inverso, attraverso fori appositi praticati nella struttura.
Un mestiere massacrante
Un’arte antica come il tempo, quella dei carbonai…Un mestiere massacrante e duro che per tanti anni ha visto i nostri avi lasciare per lungo tempo i propri cari per cercare di riportare a casa un po’di soldi per mandare avanti la famiglia.
Non c’è famiglia del nostro Appennino che non abbia avuto avi boscaioli e carbonai e le storie che si sono tramandate nel tempo hanno raccontato di un mestiere massacrante, di uomini strappati per molti mesi alle proprie famiglie, di luoghi malsani in cui si lavorava, di capanne di frasche in cui si sopravviveva, di malattie che spesso avevano esiti letali. Alcuni partivano con le proprie famiglie, altri soli come cani, per riportare a casa qualche soldo; ritornavano sfibrati, lerci, con la polvere di carbone nei polmoni e incollata ai pori della pelle, dopo aver percorso a piedi spesso centinaia di chilometri, attesi dalle famigliole e talvolta nemmeno riconosciuti per gli stenti a cui si erano sottoposti per mesi e mesi. Con essi i Mei, cioè bambini e adolescenti che facevano i lavori più umili nelle capanne: cuocevano i pasti, tenevano pulito l’accampamento alla meglio, provvedevano all’acqua, servivano i carbonai esperti. Erano giovanissimi costretti a diventar uomini nonostante loro e a sopportar fatiche immani con la speranza, un giorno, di apprendere la difficile arte di far carbone, che li avrebbe resi orgogliosi e ambìti.
C’è un detto nella nostra montagna che sopravvive al tempo e che Policarpo Petrocchi include nel suo Dizionario della Lingua Italiana: “L’ho messo in carbonaia” equivale a metter qualcuno in prigione o costringerlo ad un lavoro massacrante.
Questo era il destino dei nostri macchiaioli-carbonai.
Il carbonaio – macchiaiolo era un mestiere duro e difficile, per il quale occorrevano una serie di competenze tecniche davvero notevoli e che oggi diventato solo un evento turistico in grado di attirare gente da ogni parte.
Le sorprese del ritorno
Il loro ritorno a casa, sapientemente descritto da Renato Fucini nelle “Veglie di Neri”, era atteso con trepidazione dalle famigliole che avevano superato l’inverno spesso tra stenti indicibili.
Per chi tornava dopo mesi e mesi, le sorprese di certo non mancavano ed erano a volte liete e altre volte tragiche. In qualche caso il macchiaiolo si ritrovava padre di un altro figlio senza saperlo e tra i miei cinghi d’la Sambuga è circolata per oltre un secolo la storia di un carbonaio di lassù che, partito da casa ai primi di dicembre, vi era tornato, inconsapevole, a giugno e la moglie aveva appena partorito. Si dice che lui abbia fatto il conto dei mesi e il conto i’n’artornava. Allora la moglie, con piglio fierissimo, contò sulla punta delle dita dicendo “Gennaio, Febbraio e quello Candelaro, i’ son tre; Marzo, Avrile e quel ch’a da venire, i’ son se’; Maggio, Giugno ed un che ce lo giungo, i’ son nove!”. Il marito convinto da tanta determinazione ci pensò un po’ e rispose: “T’ha ragion”.
Anche di questo tipo erano le sorprese, ma un figlio, allora, era una benedizione e se l’éra maschio, ancor mejo. E poi un bravo capo carbonaio in casa faceva sempre comodo, in quel mondo antico, di gente semplice, spesso anche stracciona, ma fiera, umile, saggia e timorata di Dio.
Testo Maurizio Ferrari
Foto Nicolò Begliomini