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Il Tibet rivelato all’Occidente

Il gesuita, nato a Pistoia, raggiunge Lhasa il 18 marzo 1716 dopo tre anni e mezzo di viaggio.

Una efficace sintetica presentazione del gesuita pistoiese Ippolito Desideri ci è fornita da Luigi Foscolo Benedetto, curatore di una splendida edizione critica de Il Milione di Marco Polo: «un missionario, nel senso più completo e più alto, in una delle zone più ardue dell’Asia misteriosa». Lo stesso studioso, che lo reputa una delle più nobili persone incontrate nei suoi studi, aggiunge che «la fede sincera, delle doti morali e fisiche non comuni hanno fatto di lui un precursore degli alpinisti e degli esploratori moderni».
Ippolito Desideri nacque a Pistoia il 20 dicembre 1684 e, dopo i brillanti studi nel locale Collegio gesuita, non ancora sedicenne, entrò nel 1700 a Roma nella Compagnia di Gesù formandosi nel prestigioso Collegio Romano. Qui mise in evidenza le sue grandi doti logico-filosofiche, doti che, unite all’ardore appassionato mostrato per la salvezza del prossimo, spinsero il preposito generale Michelangelo Tamburini a sceglierlo per la difficile missione nella allora lontana, misteriosa e quasi inaccessibile terra del Tibet.

Desideri partì da Roma il 9 settembre 1712, e attraverso Firenze (dove fu ricevuto dal granduca Cosimo III de’ Medici), Pistoia e Livorno (primo imbarco), raggiunse Genova, punto di partenza per una tempestosa navigazione nel Mediterraneo e oltre lo stretto di Gibilterra, fino a Lisbona, la porta d’accesso privilegiata per l’Estremo oriente, dopo che era stata aperta la via marittima oltre il Capo di Buona Speranza.

Una lunga traversata degli oceani Atlantico e Indiano lo condusse a Goa, la ‘Roma dell’Oriente’, centro di irradiazione del cristianesimo nell’Asia meridionale ed orientale. In India raggiunse Delhi e da qui, il 24 settembre 1714, ora con il confratello portoghese Manoel Freyre, Desideri inizia il gran giro himalayano che, dopo Lahore in Punjab e il difficile superamento dei monti Pir Panjal, primi contrafforti della catena himalayana, impone una lunga sosta nell’amena Srinagar, capitale del Kashmir, utile per riaversi dalle fatiche e dai malanni ma comunque ineludibile per la necessità di svernare.

Bhavachakra, La grande Ruota della vita, dipinto a tempera su tessuto, Nepal, XX secolo
Ippolito Desideri descrive la ruota dell’esistenza, conosciuta in sanscrito bhavacakra, che rappresenta simbolicamente i travagli dell’esistenza condizionata, come “simbolo o figura di cui si servono i Tibetaniper far conoscere con un segno materiale uno de’ punti principali della loro falsa credenza […]. Una gran testa d’un mostro orribile con la bocca spaventevolmente spalancata. Dentro una tal bocca in una rota divisa in sei spartimenti rappresentano i sei stati de’ viventi, cioè tre di premio della virtù e tre di dannazione e castigo dei peccati”.
«Essendosi cominciate a dileguar le nevi, e cominciando già col passaggio delle genti di Cascimìr a riaprirsi i passi», il viaggio riprende verso quella specie di selvaggio corridoio fra Himalaya e Karakorum. Superato lo Zoji-la (3500 m), passa dal Kashmir al Ladakh, all’epoca regno indipendente di popolazione e cultura tibetana, dove i gesuiti sono ben accolti nella capitale Leh e vi si trattengono dal 25 giugno al 17 agosto 1715.

L’ultima fase del viaggio è rappresentata dalla lunga ed estenuante traversata delle gelide solitudini dell’altopiano tibetano, che, passando per la regione del monte Kailash e del lago Manasarovar, conduce finalmente a Lhasa, capitale del Tibet, raggiunta, come dice lo stesso viaggiatore, «tre anni, cinque mesi e ventidue giorni dopo la partenza da Roma […], a’ 18 di marzo dell’anno 1716». Giuseppe Tucci, celebre orientalista, nota che «l’arrivo del Desideri a Lhasa segna una data memorabile nella storia degli studi tibetani perché egli fu il primo a rivelare all’occidente il Tibet». Sven Hedin, il più grande esploratore-geografo del Tibet e dell’Asia centrale, afferma che Desideri «aveva compiuto un viaggio meritevole di rendere il suo nome famoso per sempre». A Lhasa, Desideri rimane l’unico occidentale (anche Freyre era subito rientrato in India). Impadronitosi perfettamente della lingua tibetana, penetrò nelle più profonde concezioni del buddhismo. Il dominio completo della lingua e dei concetti del buddhismo è testimoniato dal fatto che ne discusse i fondamenti in cinque libri scritti direttamente in tibetano. Inoltre descrisse in italiano, in modo completo e preciso, praticamente ogni aspetto della vita e della cultura dei tibetani, in «quella Relazione del Tibet che – secondo Tucci – per la sua profondità e diligenza resiste all’urto dei secoli e al perfezionarsi dell’indagine».

La presenza di Desideri a Lhasa venne però forzatamente interrotta quando, dopo cinque anni dal suo arrivo, il 28 aprile 1721 fu costretto a lasciare la città, sulla base di una ingiunzione vaticana, in quanto la Congregazione di Propaganda Fide aveva affidato la missione del Tibet all’ordine rivale dei cappuccini. Lasciata Lhasa, si ferma per alcuni anni nella missione di Delhi (1722-1725), per ripartire finalmente da Pondichéry (21 gennaio 1727) in direzione dell’Italia, dove, dopo alcuni giorni nella sua Pistoia, rientra, il 23 gennaio 1728, «prosperamente a Roma quindici anni e quattro mesi dopo [esservi] partito per andare alle missioni delle Indie Orientali».

Il rientro fu tuttavia poco prospero per lui in quanto il suo ordine era in disgrazia e la sua speranza di tornare in Tibet fu definitivamente frustrata, mentre gli venne impedito di pubblicare la relazione già predisposta per la stampa e di trattare in qualsiasi modo degli argomenti della sua missione: in beata solitudine, nella Casa professa della sua Compagnia a Roma, morì il 13 aprile 1733. Fosco Maraini sostiene che se la sua relazione «fosse stata pienamente conosciuta fino dal ’700, oggi senza dubbio parleremmo dell’autore come d’un Marco Polo, d’un Cristoforo Colombo dello spirito». Il prezioso manoscritto (che testimoniava la grande apertura di Desideri verso culture e tradizioni diverse da quella occidentale) venne rintracciato nel 1875 per merito del letterato pistoiese Gherardo Nerucci, all’interno della collezione di Filippo Rossi Cassigoli.

Il ritrovamento ebbe eco internazionale (ne parlò anche il “Times” di Londra), ma la stampa della relazione avrebbe dovuto ancora attendere: parzialmente pubblicata 1904, uscì finalmente nel 1932 in una edizione inglese, curata dal grande esploratore Filippo De Filippi; la versione integrale, nell’originale italiano, è stata pubblicata solo tra il 1954 e il 1956, in tre tomi, per la cura magistrale di Luciano Petech.

 

TESTO
Enzo Gualtiero Bargiacchi
FOTO
Archivio mostra
“La rivelazione del Tibet”
Ippolito Desideri e l’esplorazione scientifica
italiana nelle terre più vicine al cielo

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