Dalla metà del ‘700, per due secoli, un’attività indispensabile per soddisfare importanti esigenze della vita civile.
Quel giorno, un freddo “boia”, ingannato dai ciottoli di ghiaccio che affioravano dall’acqua, ma sembravano saldamente compatti, precipitai dentro al “lago”: mi salvò Domizio, un ragazzo come me. Mi tirò sull’argine, e, dopo pochi secondi, i miei vestiti pesanti già cominciavano a gelarsi. Come se fosse un gioco, insieme con gli altri amichetti presenti, cominciammo a correre verso il paese e quando, ormai, ero sulla porta di casa, tutto addosso a me, compresi viso e capelli, si era congelato da farmi sembrare una mummia sotto cristallo: uno strato di ghiaccio mi avvolgeva totalmente. Altro che gioco: Domizio mi aveva salvato la vita. La stessa scena capitava spesso, ma non era un gioco.
A monte di queste situazioni, per noi infanti, c’era un lavoro pesante, all’ordine di un solo giovanotto (quello della “palamina”) appena tornato da fare il soldato o in procinto di andarci.
Nella seconda metà del’700 e ai primi anni del secolo successivo, si ebbe in Emilia e Toscana, un periodo di relativa stabilità, che favorì un miglioramento delle generali condizioni di vita. Questo mutamento creò e determinò la necessità di trovare come conservare e preservare le derrate alimentari, e ciò si raggiunse utilizzando un semplice sistema: il freddo.
Questa risorsa naturale, divenne una primaria necessità per ospedali, macellai e gelatai, poi nella gestione di esercizi alberghieri e bar-caffè.
Fu necessario individuare i siti più affidabili per l’approvvigionamento del ghiaccio. E sulla Montagna Pistoiese (700-800 m sul livello del mare, non c’erano ghiacciai) imperversava, per mesi, un grande freddo e il fiume Reno era ricco di acqua sempre (allora) potabile.
La vallata, quindi, si dotò rapidamente di “laghi”, bacini dai fondi di terra (circa 50 fra Le Piastre e Pracchia). L’acqua del fiume entrava da un “capo” del bacino, sull’altro si elevava un edificio di grossi sassi messi insieme a secco, in genere circolare, la parte inferiore profondamente scavata nella terra, il tutto coperto da una cupola di paglia dalla forma conica. Un sostanziale frigorifero.
Gli arnesi per lavorare il ghiaccio, o diaccio, erano semplici: accetta, palamina, pertica, rampino, palachina, cesta e balzuolo. L’accetta serviva per staccare la grande lastra ghiacciata dai margini e ridurla in “barche”, da trasferire, spingendosi con una pertica, verso l’imboccatura della ghiacciaia, già liberata dal materiale, ridotto in pezzi di circa un metro quadrato e 100 chili, dal giovanotto della palamina. A lavorare, oltre al palaminaro, c’erano 6 o 8 donne, dotate di rampini col compito di trascinare su uno scivolo di tavole, a coppie, i blocchi di ghiaccio dai margini dell’acqua fin dentro la buca dell’edificio, dove il materiale sarebbe rimasto depositato fino alle stagioni calde. All’interno un uomo anziano aveva il compito di sistemare con la palachina i blocchi secondo un appropriato ordine.
Man mano che l’area ghiacciata si allontanava dal deposito, il trasferimento verso l’uomo della palamina avveniva con le “barche”, porzioni gelate di circa 30 m2. La conduzione, spesso, era affidata ai ragazzi che marinavano la scuola, vigilati dalle mamme, le donne del rampino. Il lavoro andava da novembre a marzo, col grande freddo.
L’attività era iniziata dopo la costruzione della “via nova” la Ximenes-Giardini (1761), che permetteva di comunicare comodamente con Pistoia, Prato e Firenze, e quindi di poter trasferire il ghiaccio con barrocci cassonati, trainati da cavalli. Il problema del trasporto migliorò quando nacque la Ferrovia Porrettana (1864). I barrocci non dovevano più passare per la salita de Le Piastre, bastava raggiungere Pracchia e scaricare il ghiaccio sui vagoni del treno. Così si aprì anche il mercato emiliano, in particolare quello di Bologna, inoltre permise ai ghiacciaioli Corsini di dotare il loro traffico di barrocci capaci di contenere ben 30 quintali e di coprire il percorso fino a Pracchia con carri trainati da una coppia di buoi.
L’attività, già ridotta dalla nuova legge che imponeva la cementificazione dei “laghi”, si protrasse fino agli anni della Seconda Guerra Mondiale. L’ultima ghiacciaiola fu l’Ermella, robusta imprenditrice della numerosa famiglia Corsini. Produceva nella ghiacciaia della Madonnina ed ebbe come clienti finali i soldati americani della V armata (1944 – 1946). Con rimessa a Pistoia (accanto alla chiesa di San Giovanni Fuorcivitas dietro l’ex Caffè Valiani). In passato anche i Begliomini, i Pisaneschi e i Vivarelli operarono nel settore. Finiva, così, un’epopea, che aveva prodotto ricchezze, all’insegna del matriarcato: donne e ragazzi erano i veri protagonisti del ghiaccio. I maschi adulti, d’inverno, erano quasi tutti alla “macchia” a far carbone.
TESTO
Luciano Della Lea
FOTO
Archivio Famiglia Cini
in collaborazione con Andrea Ottanelli