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La chiesa di Sant’Antonio Abate o del Tau

Fondata alla fine del 1360, la chiesa presenta il più importante ciclo pittorico tardogotico di Pistoia.

L ’aula della trecentesca chiesa di Sant’Antonio Abate è interamente avvolta da un articolato ciclo di scene ad affresco, che in origine ne ornava senza soluzione di continuità tutte le volte, le pareti e gli imbotti delle aperture, così da presentare il più importante e narrativamente complesso ciclo di affreschi tardogotici nella città di Pistoia.

Eppure, alla fine del Settecento, in una stagione del gusto qui e ora avversa all’arte ‘gotica’, l’antica chiesa fu sconsacrata, venduta e poi addirittura trasformata in abitazioni e suddivisa in tre piani, con la realizzazione di solai pareti finestre e porte, che non poche drastiche ferite provocarono alle pitture, nascoste sotto una nuova tinteggiatura da cui emergevano solo pochi frammenti.

È solo nel secondo dopoguerra che iniziano le procedure per l’acquisto da parte dello Stato italiano dell’ex chiesa e nei primi anni sessanta la Soprintendenza ne avvia il restauro e il recupero delle decorazioni pittoriche, sotto la guida prima di Albino Secchi e poi di Francesco Gurrieri. E’ stato così recuperato lo spazio dell’antica chiesa e il grande e suggestivo ciclo di affreschi è tornato a essere leggibile, nonostante le lacerazioni subite e le non poche lacune.

Ma riprendiamo la storia dalla sua origine. La chiesa di Sant’Antonio Abate fu fondata alla fine del 1360 per volontà del pistoiese Giovanni Guidotti, che alla metà del Trecento ebbe una brillante ascesa all’interno dell’ordine dei canonici regolari di Sant’Antonio e che fu attivo nella costruzione o ampliamento di precettorie antoniane a Pisa, San Miniato al Tedesco, a Firenze e poi in Campania e a Napoli.

Il Trecento infatti è il secolo della rapida espansione dell’ordine antoniano, fondato in Francia alla fine dell’XI secolo e legato alla diffusione tardomedievale del culto per Sant’Antonio Abate, l’eremita della Tebaide alle cui capacità taumaturgiche (come si può leggere nell’approfondimento che accompagna questo articolo) ci si affidava per la guarigione dal ‘fuoco sacro’, ovvero l’ergotismo cancrenoso che appunto tra XI e XIV secolo si diffonde epidemicamente in quasi tutta l’Europa a causa di un fungo parassita che attaccava in particolare la segale.

Il fondatore della casa antoniana di Pistoia, Giovanni Guidotti, volle che l’aula della chiesa fosse interamente decorata da un articolato ciclo di affreschi, affidati al pittore fiorentino, Niccolò di Tommaso, allievo di Nardo di Cione e attivo tra il 1346 e il 1375. Proprio al religioso pistoiese si deve verosimilmente la definizione del complesso programma iconografico degli affreschi, che possiamo seguire nella recente lettura proposta da Ugo Feraci e Laura Fenelli. Sul fondo della chiesa è raffigurato il Paradiso, in cui le tre Persone Trinitarie sono attorniate da una teoria di santi, tra cui è riconoscibile Sant’Agostino, alla cui regola si rifacevano i canonici di Sant’Antonio.

chiesa tau pistoia 01  chiesa tau pistoia 07

Sulle vele delle tre crociere che chiudono l’aula si distendono le scene della Creazione, del Peccato originale, descritto con particolare enfasi, e infine le Conseguenze del peccato, con l’omicidio di Abele e la costruzione della città di Enoch da parte di Caino e la sua uccisione per mano del pronipote Lamech.

Le pareti della chiesa sono divise in tre fasce; nella più alta, corrispondente alle lunette sotto le volte, sono raffigurati episodi dell’Antico Testamento, che si aprono con la costruzione dell’arca di Noè, il diluvio universale e l’ebbrezza di Noè e proseguono poi con la costruzione della torre di Babele ed episodi della vita di Abramo e Lot, di Isacco e di Giacobbe, con una vivace narrazione figurativa ricca di dettagli, che restituiscono un’immagine quanto mai viva della vita medievale, come ad esempio nell’alacre famiglia di artigiani e nella vagliatura del grano raffigurate nella vela con il Dominio dei giganti sugli uomini, mentre nella lunetta che illustra il sacrificio di Abramo, Sara e le sue schiave sono ritratte in una laboriosa dimensione domestica.

Il registro centrale è dedicato alla vita di Cristo, dall’annuncio a Gioacchino e Anna della nascita di Maria fino alla Trasfigurazione di Cristo, privilegiando le storie dell’infanzia. La ricorrente presenza della figura di Pietro (Vocazione di Pietro, la Tempesta sedata e la sua presenza nella scena
della Trasfigurazione) può essere letta quale segnale del rapporto privilegiato tra gli antoniani e il potere pontificio, che favorì largamente l’ordine,
tanto che già dalla metà del Duecento i frati antoniani gestivano l’assistenza ospedaliera della corte pontificia.

Infine, nel registro inferiore sono raffigurate le Storie di Sant’Antonio Abate e la Leggenda della traslazione delle sue reliquie, secondo un racconto in cui il programma iconografico sembra accentuare l’attenzione per gli aspetti della vita comunitaria, tralasciando i più consueti modelli iconografici legati alla figura di Sant’Antonio, ovvero l’esperienza ascetica nel deserto della Tebaide e in particolare le tentazioni demoniache, che invece avranno una persistente e diffusa fortuna nella pittura europea.

Qui le vicende del santo eremita sono descritte a partire dalla sua vocazione, che si compie nell’Ascolto del passo del Vangelo e nella successiva Elemosina ai bisognosi; l’ambientazione è in una piccola chiesa, dove sopra la mensa dell’altare con il Vangelo aperto è posto un trittico con al centro la Vergine, un vero e proprio polittico trecentesco ‘dipinto nel dipinto’.

Il racconto prosegue con episodi della vita del santo e dei compagni raccolti attorno a lui, l’incontro con Paolo di Tebe, la morte e la sepoltura ad opera dei suoi compagni, che qui sono raffigurati con l’abito antoniano. Una seconda serie di scene descrive il recupero del corpo di Sant’Antonio per volontà dell’imperatore bizantino Costante e il suo trasporto a Costantinopoli, dove si compie il miracolo della guarigione della figlia dell’imperatore, segno esplicito delle capacità taumaturgiche delle reliquie e quindi elemento fondativo dell’ordine antoniano, che proprio dalle reliquie successivamente traslate in Francia presso la casa madre di Vienne traeva la consacrazione dei medicamenti applicati ai malati di ‘fuoco sacro’ .

L’ultima scena, posta al termine della parete sinistra della chiesa, descrive la vita dei canonici antoniani e la loro attività terapeutica; sulla sinistra, un gruppo di religiosi sostiene un giovane e applica sul suo corpo un unguento, mentre un altro religioso tiene in mano un’ampolla. È la raffigurazione, con tutta probabilità, delle terapie attuate dagli antoniani per i malati del ‘fuoco di Sant’Antonio’, ovvero l’applicazione del balsamo ricavato dal grasso di maiale e la somministrazione della pozione che veniva consacrata direttamente dalle reliquie del santo.

A destra, sullo sfondo di un tabernacolo in cui è raffigurato Sant’Antonio, un religioso antoniano mostra una cassa che contiene tre mani e due piedi, forse ex voto di malati miracolosamente guariti o invece veri e propri arti amputati dall’ignis sacer, testimonianza drammatica delle conseguenze della malattia e come tale esibiti, a titolo di duro ammonimento e di esortazione alla devozione per il santo eremita e i suoi religiosi.

Il lungo e articolato racconto per immagini che si svolge sulle pareti del Tau si apre con le scene della creazione e si chiude dunque didascalicamente con l’illustrazione delle misericordiose attività dell’ordine antoniano. Insomma, una lunga e suggestiva narrazione trecentesca in cui si ripercorre il costante rapporto dell’uomo con Dio, dalla genesi appunto alla realtà attuale.

Pochi anni fa l’antica aula ecclesiale si è arricchita dei grandi bronzi di Marino Marini di proprietà della Fondazione intitolata allo scultore pistoiese, opere dalle forme lacerate e tragiche, in cui la figurazione estremamente drammatica è espressione dell’ansia che l’artista manifesta per la condizione
umana, in un mondo in cui ormai si è compiuta la rottura di ogni armonia tra l’uomo e la natura.

Nonostante un allestimento di eccessivo protagonismo formale, che non appare definito per la migliore percezione dell’opera di Marino Marini né peraltro minimamente attento nell’accostarsi alle figurazioni trecentesche, si è però stabilito un dialogo davvero suggestivo tra stagioni e forme dell’arte così distanti.

TESTO

Valerio Tesi

FOTO

Nicolò Begliomini

 

Il Santo del Fuoco e degli animali

di Ambra Tuci

Sant’Antonio Abate fu un eremita egiziano, nato nel 251 circa e considerato il fondatore del monachesimo cristiano e il primo degli Abati. Sant’Antonio è invocato in Occidente come patrono dei macellai e salumieri, dei contadini e degli allevatori nonché soprattutto come protettore degli animali domestici; fu reputato un potente taumaturgo capace di guarire malattie terribili.

Una comunità di frati dell’Ordine, la cui missione era l’assistenza ai malati poveri, si stabilì a Pistoia intorno alla seconda metà del Trecento e, fino alla fine del diciottesimo secolo, abitò nel Complesso del Tau, fatto edificare da Fra’ Giovanni Guidotti. L’ordine degli Ospitalieri confluì in seguito nei Cavalieri di Malta.

Il 17 gennaio, per Sant’Antonio, tradizionalmente la Chiesa benedice gli animali e le stalle ponendoli sotto la protezione del Santo. La tradizione deriva dal fatto che l’ordine degli Antoniani aveva ottenuto il permesso di allevare maiali all’interno dei centri abitati, poiché il grasso di questi animali veniva usato per ungere gli ammalati colpiti da ergotismo, chiamato anticamente “fuoco di Sant’Antonio”, un’intossicazione alimentare dovuta all’ingestione di farina tratta da segala cornuta: e poiché il pane di segale era alla base dell’alimentazione medievale, si comprende la diffusione di questo flagello, che compariva più frequentemente nei periodi di carestia. I malati presentavano forti bruciori interni e la progressiva cancrena delle terminazioni, con conseguente mutilazione degli arti – soprattutto mani e piedi, come raffigurato anche negli affreschi pistoiesi del Tau – e spesso esiti letali. I canonici di Sant’Antonio si dedicarono alla cura dei malati di ignis sacer, le cui ferite erano lenite appunto con l’applicazione di un balsamo fatto con grasso di maiale.

È per questo lo stesso animale diviene poi un attributo iconografico del santo eremita, assieme alla stampella a T, o tau, impiegata per dare aiuto ai malati e perciò riportata sulla veste dei canonici, detti appunto di Sant’Antonio Abate o del Tau. ‘I porci di Sant’Antonio’ venivano adornati da una campanella e potevano girare tranquillamente per le vie cittadine trattati come creature sacre e intoccabili, soltanto i monaci potevano macellarli per trarne poi il prezioso unguento curativo.

Anche a Pistoia questa usanza è testimoniata da una visita pastorale del 1582 di Angelo Peruzzi, Vescovo di Sarsina, durante la quale si racconta di un rito di benedizione dal sapore pagano avvenuto proprio sul sagrato antistante alla Chiesa del Tau.

Il 17 gennaio in molte città e paesi italiani si celebra questa festa, con tradizioni assai simili. Spesso si usa accendere dei grandi fuochi che simboleggiano la purificazione e la fecondità, i falò segnano il passaggio dall’inverno e dalle giornate più buie alla primavera e alla luce. Si tratta di un’usanza che si perde nella notte dei tempi e si riallaccia al folclore popolare che affonda le sue radici fino ad ancestrali riti pagani.

In Toscana, nelle nostre campagne, fino a pochi anni fa era possibile trovare delle immaginette sacre di Sant’Antonio nelle stalle. Sant’Antonio è stato infatti il Santo più amato dai contadini e dagli allevatori. La tradizione popolare narra l’affascinante leggenda di un sant’Antonio accompagnato dal suo fido porcellino che accogliendo le suppliche degli uomini che soffrivano il freddo per la mancanza del fuoco, andò a bussare alle porte dell’inferno. I diavoli lo respinsero, ma il maialino riuscì ad entrare e a portare scompiglio, così le creature infernali dovettero chiedergli di riprendersi il suo dispettoso animaletto. Una volta entrato all’inferno Sant’Antonio diede fuoco al suo bastone e riuscì così a portare la fiamma sulla terra. Tornato fra gli uomini accese una catasta di legna e da allora il fuoco non è più mancato.

La storia di Sant’Antonio è ora raccontata anche in un libro di Carlo Lapucci, il cui testo è tratto da una conferenza letta al Palazzo del Tau il 17 gennaio 2014: “Antonio Abate, Santo del fuoco e ombra d’una divinità sommersa”, Ed. Fondazione Marino Marini, Pistoia, 2015. Il volume è reperibile presso il bookshop del Museo Marino Marini.

www.fondazionemarinomarini.it

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