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Dal Convento di Giaccherino a Tebe

La nascita ufficiale dell’egittologia in Toscana risale al 1828, quando il Granduca Leopoldo II si fece conquistare dall’egittomania, che stava allora contagiando molte nazioni europee, e decise di finanziare la spedizione archeologica franco-toscana in Egitto dell’orientalista pisano Ippolito Rosellini e di Jean-François Champollion, celebre decifratore della scrittura geroglifica. Gli appassionati di antichità egiziane, che visitano il Museo Archeologico di Firenze, possono vedere con i loro occhi i reperti frutto della missione congiunta ed ammirare Rosellini e Champollion ritratti fra le rovine del tempio di Luxor nel quadro eseguito dal pittore Angelelli al loro rientro dall’Egitto.
Molto meno noto rispetto alla spedizione egittologica francotoscana è il viaggio in Egitto di un frate pistoiese che visitò l’antica Tebe addirittura due secoli prima di Rosellini e di Champollion.
Parafrasando le celebri parole di quest’ultimo (“la strada per Menfi e Tebe passa per Torino”), potremmo ben affermare che la strada per Tebe era passata anche da Pistoia, anzi più precisamente dal Convento di Giaccherino.
All’ordine dei francescani di Giaccherino apparteneva, almeno dal 1624, Frate Arcangelo Carradori, che nel 1630 lasciò Pistoia per intraprendere un’importante missione in Egitto per conto della Congregazione romana di Propaganda Fide: riallacciare rapporti con la Chiesa Copta egiziana. Incontrare il Patriarca copto non si dimostrò affatto semplice per Frat’Arcangelo, ma ciò lo portò, probabilmente oltre i suoi piani originari, a lasciare il Cairo verso l’Egitto meridionale e a studiare il nubiano. Nel 1638, infine, il frate fu costretto a rientrare in Italia, senza aver riscosso successo nella sua missione religiosa, ma con un importante bagaglio di conoscenze, primariamente linguistiche.
Gli venne affidato, infatti, l’insegnamento dell’arabo presso l’Università di Pisa e il suo scritto più noto, ancora oggi, è il Dizionario turco-italiano e italiano-nubiano, concluso a Giaccherino e rinvenuto fra i manoscritti della Biblioteca Forteguerriana nel 1876. Rientrato a Roma nell’ottobre del 1638 per render conto dei risultati del suo operato, il Carradori scrisse anche una interessante Relatione delle cose che ha possuto veder Frat’Arcangelo da Pistoia Missionario nell’Alto Egitto dal 1630 fino al 1638, relazione che venne fortunatamente conservata nella collezione di manoscritti antichi di un altro pistoiese: Filippo Rossi Cassigoli.

                                                        Filippo Rossi Cassigoli

Leggendo la vivace descrizione dell’Egitto del frate pistoiese nell’unica trascrizione disponibile del suo manoscritto, risulta evidente l’intento religioso del viaggio di Frat’Arcangelo, tant’è che le sue parole riflettono principalmente sullo stato della religione cristiana in Egitto, in particolare della Chiesa Copta.
Tuttavia, le osservazioni del missionario sono molto attente anche agli aspetti pratici ed economici del paese che va attraversando e, in più di un passo, riportano in modo dettagliato e vivace ciò che dei costumi egiziani lo ha maggiormente colpito. Spende per esempio molte parole nel descrivere le tecniche di allevamento dei pulcini e la gestione delle piene del Nilo al Cairo, piuttosto che dilungarsi sull’efficacia della sua attività missionaria: “Nel Cairo come in altri luoghi per l’Egitto hanno l’arte di far nascere li pulcini in forno, quali forni son’ fatti come li nostri, et ordinati un presso l’altro come un dormitorio di frati […]. Il vivere dell’Egitto è caro o buon mercato secondo che l’acqua del Nilo cresce, et allaga più o meno terreno, onde conoscono l’abbondanza, o carestia […]”.
Nella relazione di Frat’Arcangelo si trovano poi sorprendenti digressioni sulle antichità egiziane, che egli definisce per lo più colletti e rovine, sia di epoca faraonica sia di epoca greco-romana. Le visita spinto da curiosità, mettendosi in almeno un’occasione in serio pericolo: “Un’altra volta essendo andato a visitar una chiesa della Madonna dentro una grotta della montagna […] il Governatore venne a posta a domandar’ del missionario dicendo che era uno stregone di Barberia venuto a cavar tesori […] onde in quel punto corse due pericoli di morte grandissimi”.
Ad Alessandria, città dalla quale ha inizio il resoconto del frate, le antichità che più colpiscono l’occhio del Carradori sono gli obelischi, che lui chiama guglie e che dovevano costituire in età moderna i monumenti più riconoscibili per i visitatori europei. Arrivando al Cairo, il frate si dilunga nel descrivere il sito di Giza e racconta di essere entrato nella piramide di Cheope fino alla camera del re, paragonando la grande galleria di accesso alla Scala Santa di Roma; mentre della Sfinge riporta l’antica convinzione che la statua parlasse (senza darle però molto credito) e che fosse collegata alla piramide di Cheope da un passaggio sotterraneo. A ovest del Cairo visita probabilmente le tombe rupestri della necropoli di Saqqara, che descrive come “caverne sotterranee fatte in volta nel tufo o pietra”, dove ha la fortuna di osservare numerosi sarcofagi e mummie: “casse dipinte di geroglifici colorite di diversi colori […] il corpo poi è involto in molte fasce, e quella che torna di sopra è pur dipinta con geroglifici, e tal’hora ornata d’oro e di gemme secondo che la persona povera o richa: e queste son le mummie […]”.
Dopo aver soggiornato al Cairo, il viaggio di Frat’Arcangelo si fa ancora più interessante perché si allontana da quella regione, che era quella più battuta dai viaggiatori europei di allora, per avventurarsi progressivamente verso sud sulle tracce del Patriarca della Chiesa Copta, con il quale dovrebbe discutere la possibilità di una riunificazione con la Chiesa cattolica. La sua missione religiosa lo conduce addirittura fino al sito di Ochossori, cioè la celebre Luxor, dove scorge da lontano i Colossi di Memnone e si addentra nella sala ipostila del tempio di Karnak, che è oggi uno dei monumenti più visitati dell’Egitto. Prima del frate pistoiese, solo un viaggiatore veneto, il cosiddetto “Anonimo Veneziano”, sul finire del 1500 si era spinto così a sud nel paese egiziano. Il resoconto di viaggio del Carradori in Alto Egitto si conclude menzionando le isole di Siene, vale a dire le cateratte di Assuan, quasi mille chilometri a sud del Cairo.
Ripercorrendo con Frat’Arcangelo le mete principali del suo peregrinare in Egitto per ben otto anni, non si può non restare impressionati dalle variegate esperienze che il missionario si trovò ad affrontare e si comprende perché più volte sottolinei i pericoli che lo hanno minacciato: dall’accusa di essere uno stregone, al rischio di vedersi gettare in alto mare nel viaggio di ritorno verso Occidente. Pensando poi al luogo appartato e tranquillo dove si trova ancora oggi il Convento di Giaccherino, il viaggio del francescano pistoiese desta profonda ammirazione e grande curiosità.

 

Testo Irene Vezzani

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